Serradifalco, gennaio.
Avevo potuto essere presentato ad una nobile Signora nel suo grandioso palazzo palermitano, dove gli arazzi, le porte dorate, le porcellane preziose raccolte nelle custodie di vetro, gli specchi, i tendaggi creavano nelle immense stanze un profondo senso di fasto. A passare per quelle stanze, pensavo che dentro ad ognuna potevano starvi non una, ma tre delle attuali case dei contadini. Ma a visitare questa Signora avevo ricevuto, come altre volte, il grande ammonimento che la ricchezza non dà felicità maggiore di quella che è stabilita dall’alto.
Tanta terra aveva questa Signora nelle valli e per i monti della Sicilia, ma il suo cuore di madre sanguinava per la perdita di due suoi figli caduti eroicamente durante la Grande Guerra.
Anch’ella come certamente qualcuno dei suoi più umili contadini sosteneva con austera mestizia questo stesso dolore legato a questo grande avvenimento della nostra storia. Le nuove disposizioni per il latifondo erano state accolte da lei con pronta partecipazione, e già nelle sue terre s’era cominciato a costruire le nuove case.
Amorosa fedeltà di contadini
Molti anni prima della guerra, già era stata creata in uno dei suoi latifondi più vasti una borgata per sanare il danno secolare, una piccola borgata con l’agenzia al centro, la chiesa, la scuola e poi le case dei contadini. Potei cosi andare a visitare queste sue terre situate nel centro della Sicilia ed essere ospitato nel suo vecchio palazzo nel paese principale della zona.
È questo villaggio ad una quindicina di chilometri dalla stazione ferroviaria sulla linea Palermo-Agrigento e si trova ad un’altitudine di ottocento metri. È proprio sotto la cima d’un monte, vi si respira un’aria purissima profumata di fieno, di lassù tutto attorno si vedono valli e montagne e picchi aguzzi. Il sole è limpido e bruciante, un sole da alta montagna.
Subito appena percorsi le prime strade mi accorsi d’una gente sana e bella. E le strade non erano come quelle di tanti altri villaggi delle montagne attorno a Palermo: strade che sembravano letti di torrenti. Trovai subito il podestà, un uomo solerte e vivace che stava sorvegliando la costruzione di un abbeveratoio per gli animali al margine del paese. A differenza degli altri paesi già visti, qui vi erano anche belle botteghe e alcuni caffè. Il podestà mi accompagnò al palazzo della Signora, qui trovai l’amministratore, come seppero che ero inviato da ella stessa per vedere le sue terre chiamarono altri dipendenti, il cuoco e i servitori, e vennero date disposizioni per ospitarmi nel migliore dei modi.
Subito mi venne fatto vedere il palazzo, con la pinacoteca e belle stanze pavimentate di mattonelle di ceramica a vari colori. Da tanti anni la padrona non era più tornata, uomini e cose là dentro sembravano essere invecchiati nell’attesa.
Quando uscimmo col podestà, con l’amministratore, scendendo per la bella scala esterna, sentivo dietro a me i paesani farsi curiosi e chiedere al servitore che ci seguiva: “Cui è chiddu?” e come questi rispondeva gloriosamente che io ero un amico della padrona, avvenne che la voce si diffuse subito in paese e tutti mi guardavano con un rispetto profondo vibrante di trattenuta gioia. Capivo cosa è per questa gente poter vedere i loro padroni, venerati sempre troppo di lontano. Qui il caso era diverso, ma altri che potrebbero andare sulle loro terre, essere presenti, dare colla loro presenza il senso del dominio autentico a loro stessi e ai dipendenti, preferiscono starsene lontani non solo dalle loro terre, ma dalla Sicilia. Non sono molli, ma comprenderanno. Per altri, pur fluendo il desiderio di amministrare direttamente i loro beni, non è possibile per la scarsità di comunicazioni e qui la colpa è diversa.
L’uomo che desideravo incontrare
Andiamo a vedere la terra, verso la grande valle. Subito fuori del paese mi viene indicato il letame gettato a mucchi, tra i sassi del torrente, nell’impossibilità di portarlo sulle terre lontane per mancanza di carri e soprattutto di strade. In questo modo il contadino che abita nel villaggio libera la sua stalla dove tiene il mulo e la capra e se deve concimare le terre lontane usa concime artificiale puro e semplice, più facile a trasportarsi, col rendimento che può dare senza integrarsi con quello naturale. Alcuni contadini sono intenti ad arare, è questo un terreno roccioso, col piccolo aratro a chiodo serpeggiano tra una roccia e l’altra.
Arriviamo alle prime case già quasi ultimate, solide case costruite con pezzi di pietra viva come si usa qui, data l’abbondanza di roccia, case con le stanze di giusta ampiezza e la stalla attigua. Presto saranno pronte è accoglieranno i lavoratori. Più oltre troviamo la borgata costruita molto prima della guerra, fu una coraggiosa prova per quei tempi. Visito le case per i contadini, queste case che sono meraviglie rispetto agli abituri di allora, consistono di due stanze e della stalla, che pure funziona da stanza per parte della famiglia.
La maggior parte delle case di campagna mancano di camino e il fumo della cucina se ne va per le fessure che trova, queste case invece hanno la grande comodità del camino e rappresentano quindi già un progresso. La stalla poi, pur essendo adiacente alle due stanze, è in qualche modo divisa e anche questo costituisce un progresso; ora la padrona ha disposto che queste case, alleggerite dalle famiglie trasferite nelle nuove case, siano suddivise in modo da concedere più spazio per le restanti.
La piccola borgata è in una bella posizione prossima ad una sorgente alla quale vanno i buoi ad abbeverarsi. Vedo una gente forte e sana, gli uomini non portano come in altri paesi lo scialle sulle spalle, tra una mantella blu col cappuccio, abbottonata con alamari, di foggia sicuramente araba, che dà loro un fiero e suggestivo aspetto. I giovani si preparano per andare al paese a fare il corso premilitare e partono tutti in un gruppo serrato, con passo martellante, e se ne vanno con lo sguardo rivolto verso l’ampia valle.
Di ritorno al palazzo, troviamo un nuovo ospite. È un proprietario di passaggio, egli ha diviso da poco la sua parte da quella del fratello. Era ufficiale superiore dell’esercito, ha dato le dimissioni e vuole amministrare la sua terra direttamente. È venuto da Palermo per fare un sopraluogo per la costruzione delle nuove case.
È entusiasta delle disposizioni del Governo, sente che si appassionerà alla vita agricola. È l’uomo che desideravo d’incontrare. Il dover impiegare una certa somma per i nuovi lavori non lo preoccupa, dice che quando i denari ci sono è sempre meglio impiegarli in opere che lasciarli nelle banche. E se per caso non ci fossero, sarà momentaneamente penoso ricorrere ad una banca, ma non sarà un debito che avrà bisogno di lungo tempo per essere saldato, il reddito maggiore determinato dalla nuova situazione lo eliminerà sicuramente e anche altri se ve ne fossero. Pensa di non perdere tempo ad approfittare dell’occasione del concorso governativo a metà della spesa necessaria per costruire una casa colonica.
Fede nella vittoria
“Beati i primi — egli dice. — Ed io voglio essere tra i primi”. Si cena assieme, dopo avere parlato del latifondo veniamo ad accorgerci d’essere stati durante la guerra nella stessa Divisione sul Grappa. E quest’aria di alta montagna profumata di fieno per le strade e fin dentro alle case ci riporta come seduti alla stessa mensa sul monte guerresco del Veneto. “Come quelle del Veneto voglio ridurre la mia proprietà, io le ricordo quelle terre piene d’alberi dovunque, e di gente che lavora beatamente“.
Si sente sicuro, come se parlasse dei suoi soldati, che trattando bene i contadini essi renderanno sicuramente di più.
“Bene e con giustizia — ripete, e soggiunge-, — bisogna uscire da questo vicolo cieco, dare un avvenire a questa terra che lo attende da secoli. Questa è una battaglia, una battaglia decisiva, bisogna impegnare tutte le forze, anche le riserve, tutti in prima linea, ma la vittoria sarà sicura perchè l’idea è bella e degna della più grande fede. E quando c’è la fede si vince assolutamente. Si vincerà qui, come abbiamo vinto sui Grappa“.
Finito di cenare ci salutiamo perchè deve ritirarsi coi suoi tecnici a studiare il lavoro per il giorno dopo.
Verso mezzanotte passando vicino alla sua stanza lo intesi concitato e animoso dire: “A quota settecento, dietro questo roccione, riparata dai venti di tramontana, qui una casa ci starebbe benissimo“.
E mi faceva pensare che fosse ancora sul Grappa e decidesse un appostamento di batteria o la costruzione d’un ricovero.
Giovanni Comisso
Pubblicato sulla Gazzetta del Popolo il 30 gennaio 1940
Si ringrazia la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e il portale della Biblioteca Digitale