Ero a Venezia in campo Santa Maria Formosa quando il Presidente dell’Associazione Amici di Giovanni Comisso, Ennio Bianco, mi inviava un messaggio che era già una dichiarazione di metodo: «Ho in mente un progetto, una serie di interviste ai musei di impresa e alle realtà del trevigiano che hanno, con la bellezza, un rapporto privilegiato. Mi piacerebbe che te ne occupassi tu».
Mentre pensavo alla risposta, che sapevo affermativa, una coppia di turisti si è avvicinata per chiedere indicazioni su Palazzo Franchetti che in quei mesi ospitava la mostra dedicata a Lee Miller. Riflettendoci a posteriori, mi piace credere sia stato un segno del destino. Quando penso alla bellezza, a questa parola apparentemente insondabile, dai confini mai pacificati, la mente corre a certe immagini del Surrealismo, a quel rifiuto dell’autorità che è poi rigetto del senso comune, del filisteismo normativo. Così, dinnanzi al chiosco di un’edicola chiusa, nella città che è universalmente considerata emblema della magnificenza, di un incanto irriproducibile, mi sono chiesta come fosse possibile perimetrare il tema, cercare di adattarlo a contesti che sfidano la percezione della maggioranza, i preconcetti della norma. La strada doveva essere quella della decostruzione di certe dicotomie – bellezza/impresa, arte/produzione – nella consapevolezza che analizzare il rapporto tra una dimensione etica ed estetica (quella della bellezza) e una propriamente pratica (relativa alle aziende, alla loro mission, al loro core business) comporta necessariamente una ri-declinazione dei concetti classici, una ristrutturazione di quello che, per secoli, è stato l’interrogativo fondamentale dell’arte.
Così, d’un tratto, mi è tornata alla mente una frase del grande artista greco naturalizzato italiano Jannis Kounellis, il quale sosteneva che «la bellezza è un fattore rivoluzionario». Intendersi sul valore di tale concetto, ragionare attorno ai rivoli sfuggenti in cui è andata articolandosi la sua caratterizzazione consente infatti di focalizzare il valore “reale”, e in certo senso politico, di ciò che pertiene al gusto estetico, o – ancor meglio – a quanto lo psicanalista e filosofo James Hillmann chiama “risposta estetica”: «immediata, istintiva, animale».
Il teorico della puerilitas aeterna, insiste sull’idea di pulsione, di spinta verso ciò che alberga nelle pieghe dell’inconscio, là dove le convenzioni non hanno posto barriere, dove il potere non ha installato i suoi dogmi. Così, in una sorta di viaggio à rebours verso un terreno pre-natale (lo spazio del puer, appunto, non contaminato da prescrizioni), è possibile recuperare un’integrità percettiva che consente di interrogare il bello, di sfuggire alla relativizzazione che ne ha investito il concetto
“Viaggio nelle fabbriche della bellezza“, questo il titolo scelto per il nostro “viaggio”, si muove sul filo di tale ragionamento. Fa propria l’idea di rivoluzione come riluttanza alle lusinghe dell’ovvio, come fuga dall’appiattimento delle diversità e delle attese. Scrive ancora Hillmann: «Ogni repressione di quella risposta [estetica N.d.R] non soltanto è deleteria per la nostra natura animale, ma è anche una ferita istintuale al nostro benessere, come è nociva la repressione di qualsiasi altro istinto […]. Passeggiare accanto a un edificio maldisegnato, vedersi servire del cibo preparato in modo sciatto e accettarlo, indossare una giacca tagliata e cucita male […] tutto questo significa ignorare il mondo».
Tale stato di cose, cui corrisponde – secondo il filosofo – un’anestesia etica ed estetica, trova un’efficace ribaltamento nelle aziende del trevigiano, un territorio denso di prospettive, di Storie intrecciate a un reticolo di storie, dove la cura del dettaglio procede in parallelo a un patrimonio solido, a una produzione che privilegia il particolare, l’originalità, e il fattore umano come elemento di crescita.
L’«ottundimento psichico» di cui parla Hillmann citando lo psichiatra Robert Jay Lifton è allora qui esorcizzato attraverso una straordinaria declinazione dell’idea di bello, lontana dal piano inclinato della ricezione passiva, dal terreno – quanto più scivoloso – di un modello di produzione finalizzato al guadagno. È un campo d’azione interessante perché pienamente calato in ciò che il senso comune identifica con il mercato e che, con una nota spregiativa, si oppone alla parentela del bello col concetto di “vero”, il quale – fornito di senso – appare vitalisticamente animato e progressivo.
Questa serie di reportage mira dunque non solo a decostruire il (presunto) trionfo delle logiche di mercato e del pensiero debole, con relativa parcellizzazione delle idee ed ideologie, ma anche a mostrare l’unicità di un territorio e la sua innegabile capacità di dar vita a un sistema industriale d’eccellenza sostanzialmente svincolato dalla pervasività del tecno-narcisismo.
«La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei», scrive Albert Camus. Così, la straordinaria esperienza delle aziende locali si pone come antidoto alla “mondializzazione” capitalistica, a quell’omologazione culturale di cui si recita – con punte di cinismo e rassegnazione – il definitivo successo.
È un equilibrio virtuoso quello delle “fabbriche della bellezza”, una coabitazione tra opposti che si scoprono compatibili, in grado di fronteggiare l’«assalto del brutto» – questo sì, annidato, nel nostro presente in (poli)crisi.
Ginevra Amadio