Verso il sole levante. Impressioni di viaggio in Oriente di Giovanni Comisso

Verso il sole levante. Impressioni di viaggio in Oriente di Giovanni Comisso

Kobe, maggio

I fiori di ciliegio stavano per aprirsi. Ancora una pioggerella notturna tiepida e tutti i rami si sarebbero coperti di scatto d’un bianco rosato. Bisognò affrettare la partenza, lasciare la Cina e muovere ad oriente ancora, verso la terra dove questi fiori sono profondamente adorati.

Nel salire a bordo del piroscafo si ebbe l’impressione di dover partire per un viaggio aereo, tanto forte era l’intuizione dell’aria che ci attendeva più respirabile. E al sommuoversi delle luride acque del Wampoo, come si partì, ci si senti con sollievo veramente staccare da qualcosa di pantanoso e polveroso insieme.

Regime secco e al ghiaccio

II piroscafo era un forte campione della marina commerciale americana. Questo tragitto da Sciangai al Giappone, su nave americana, non ha mancato di toglierci una vecchia illusione. Si pensava e si credeva che gli Americani, con tutto il loro denaro, dovessero essere strapotenti assaporatori della vita dal lato della comodità e del decoro. Ma, al raffronto tra questo piroscafo e quello della Compagnia italiana che ci ha portati per il primo tratto del viaggio, bisogna dire che i miliardari siamo noi. La nave aveva una tozza sagoma di pentolone, dal colore giallo zucca. Ornamenti e addobbi molto modesti : genere buon mercato. Cucina, poi, pessima, tale da far saltare il pensiero alla vita rude dei primi Americani esploratori, cercatori d’oro o abbattitori di selve tra la Pennsylvania e l’Alaska. Senza che si crepi dal caldo, hanno la smania di portare tutto violentemente ghiacciato. Olive e ravanelli in ghiaccio!

Mensa senza vino, come fossimo carcerati; e al posto di questo, acqua gelata. Minestre insipide, fette di montone tutto grasso, formaggio come di cera e dolci che sanno di medicinali. Si pensava che la cucina agisse automaticamente, senza la misura data dal controllo del palato umano. Mentre, a bordo del piroscafo italiano, avevamo un cuoco che non solo vigilava al buon sapore delle pietanze, ma s’occupava, con picca letteraria, della stesura della lista, con denominazioni prettamente italiane. Nella sua cabina vi sarà stata una decina di vocabolari e nelle soste del suo lavoro elaborava addirittura una storia dell’arte della cucina dalla creazione dell’uomo ai giorni nostri! Oh buon sangue della nostra razza!

Femminismo yankee…

S’aveva già avuto modo di conoscere in Sciangai l’esercito di certe vecchie miss americane, inviate colà dalle varie associazioni protestanti o femministe, per la conversione o per l’elevazione morale della donna cinese. Cominciavano a rendersi poco simpatiche con la loro pronunzia da ventriloqui o da ispirate dal cielo. Grande categoria di sterili, qualcosa come le operaie nel regno delle formiche e delle api. Invadenti in ogni ramo: sportivo, scolastico, giornalistico, commerciale, politico. Una di costoro, segretaria dell’addetto commerciale americano, fu persino candidata al posto di consigliera nel Consiglio Municipale Internazionale di Sciangai, dove noi Italiani, con tutto che s’abbia una considerevole e laboriosa colonia, troviamo insuperabile resistenza ad avere un nostro consigliere rappresentante. Sorrette dalla scorta aurea, a mezzo di estese istituzioni, smaniano nell’idea d’una rigenerazione della donna cinese.

Se in Cina, ora che gli uomini sono liberi, vi sono tanta ammirabile intelligenza e tanto ordine, figurarsi che cosa sarà col concorso delle donne.

Due di queste pioniere, per somma gentilezza del Maestro di casa, mi furono date per compagne di tavola. Parlavano anche cinese. Aspetti venati da influssi d’altre razze, un po’ teutoni e un po’ israelite. Masticavano avidamente i porri crudi portati come antipasto e si prendevano con le dita le olive. Scoperta una formica sulla tavola, ne fecero un grande caso d’orrore e di nausea, con calorosa protesta verso il Maestro di casa.

Appena mangiato, si usciva a passeggiare sul ponte, ansiosamente desiderosi di veder apparire su dalle acque ritornate azzurre le prime isole del Giappone. Ma, la prima, tenue, montagnosa, fusa col cielo, segnata dal biancore d’un piccolo paese alla base, si rivelò nella pienezza del meriggio.

Sussegui una notte di luna, luna sottile disposta a navicella; e, guardandola situata verso il sud, si pensò a tutto lo spazio di cielo verso le piccole isole australi che nello stesso tempo illuminava. Infine sulla sera del terzo giorno si avverti nell’aria l’odore di terra e al principio della notte apparvero i fari dell’imboccatura del Mare Interno. Le nere cime dei colli si profilavano sul riverbero delle città retrostanti illuminate.

…e femminino giapponese

Si volle alzarsi per tempo, all’alba, per vedere il sole levarsi, ora che gli siamo più vicini, secondo la favola. Sulle acque quiete la nebbia si posava simile ad uno strato di fumo lasciato da altri piroscafi; di tanto in tanto si rivelavano cime brulle d’isole o di promontori.

Già la luce era diffusa, ma il sole rimaneva tuttavia dentro al velo di nebbia; poi, con la rapidità dello sguardo umano, splendette sollevando a volo dalla terra invisibile uno stormo nero d’uccelli. La nebbia si sciolse al tepore e scoperse allora piccole barche di pescatori. che vi stavano celate, e vicina la costa con pinete contorte e bassi villaggi di legno.

Presto sul mare galleggiarono innumerevoli i rifiuti, il solito preannuncio delle città, e al di là di un promontorio apparve Kobe, fitta di ciminiere di fabbriche, grigia nei magazzini del porto, accerchiata da navi, piatta nelle sue casipole ai piedi d’una boscosa catena di monti. Appena attraccati, stupì vedere la rara folla che attendeva; da Suez, questo è il primo porto dove non tumultui la folla.

Ecco splendere violetto un kimono e una tenue mano salutare. Calato il barcarizzo, la donnina, dalla capigliatura lucida e rigonfia, salì camminando sugli zoccoli. Ad un passo arduo da fare, uno le protese le braccia, la sollevò come una bambina. Ed ella, incipriata, fresca, sorridente se n’andò verso chi l’attendeva. Poi salirono i facchini, bassi, tarchiati, animosi, simili a guerrieri che avessero invaso una fortezza arrampicandosi su per le muraglie; e tutti muniti di guanti di lana alle mani per non fare il callo.

Le strade sono quasi deserte, l’aria è fresca e netta. Strade asfaltate, palazzi di cemento, automobili, tranvai e treni che filano ogni cinque minuti. Strade fiancheggiate da pali del telefono: rettifili senza fine. Ma più avanti, verso i monti, la città prende un altro aspetto. Sono tutte umili casette di legno, simili a quelle che si fanno con le carte da giuoco, che si susseguono. Ognuna apre sulla strada o sul vicoletto un piccolo, ordinato e pulito bazar: giocattoli, sigarette, indumenti, zoccoli, ombrelli e, quasi confusa tra la mercanzia, una piccola donnetta sta assisa, su d’un rialzo coperto da stuoia, intenta al difficile riscontro di cassa.

In altre vie i ristoranti si alternano ai caffè, ai locali per il giuoco del biliardo che deve appassionare moltissimo tanta ne è la frequenza, e ai piccoli bar dalle luci interne attenuate.

Il respiro delle piccole case

Kimono a fiori o a disegni bizzarri stretti alla vita da un’alta cintura di seta di colore diverso, pettinature rialzate, rigonfie e complicate, volti incipriati e passo cadenzato, facendo pesare tutto il corpo sulle ginocchia. Legato alla schiena di molte, dorme, sorride o spia attento un bambino mirabile.

E subito contrasta a questi esseri, toccati dalla grazia, l’aspetto aspro, orrido e a volto malsano degli uomini. Quasi appartenessero ad una razza diversa. Parte vestono all’europea e parte alla giapponese con kimono e zoccoli, ma con cappello molle o berretto da ciclista. Negli uffici e per la strada molti, pur vestiti alla nostra maniera, calzano gli zoccoli a piedi nudi.

Viene In sera: le vie e i mercati s’accendono d’archi, uno successivo all’altro, illuminati da tenui globi a simiglianza di lanterne di carta e, sotto, la folla ordinatamente va sulla sinistra e avanza sulla destra. Risuonare di zoccoli maschili e femminili, e sfuggente sguardo d’indagine verso lo straniero che passa.

Nell’ombra, di tanto in tanto, vegeta un giardino dove si cela un tempio. Ma qui si può penetrare nei vicoli semibui, dove il pellegrino, vestito di bianco, col cappello di paglia a cono, elemosina pregando davanti alle soglie aperte e illuminate, dove i piccoli bar, fioriti di donzelle, attraggono con promettenti insegne il marinaio approdato.

Qui si può ascoltare e osservare, con tutto il più sereno godimento dello spirito, il segreto respiro delle case dalle pareti leggere. Ecco, tocchi staccati, ora alti, ora bassi, sulle pochecorde d’una chitarra, dietro alla carta intelaiata, su cui la luce interna profila un’ombra, e dalla breve loggia al piano di sopra una testina che guarda; poi il trillo d’una risata e lo scorrere d’una parete, dietro a cui subitanea scompare.

Giovanni Comisso
Pubblicato sul Corriere della Sera il 28 maggio 1930

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