Storie vecchie e nuove di una città che per tre mesi l’anno diventa la capitale del mondo
Venezia senza maschera (Parte 1 di 2) | Venezia senza maschera (Parte 2 di 2)
Il Canal Grande è fermo nel tempo, in un tempo di mezzo secolo addietro, come in una vecchia cartolina illustrata, con l’acqua mal colorata, non si sa se di verde o di celeste, con le case un poco rosa e una gondola sola l’attraversa. È un Canal Grande dei miei ricordi, ricordi di pomeriggi annoiati e sensuali. Il salmastro dell’aria mi rievoca l’odore del sapone disinfettante e la soddisfazione del sangue dopo l’amore nelle piccole stanze delle calli segrete. La statica secolare dei palazzi forma una lunga catena nel tempo e il mio tempo vi ha aggiunto un nuovo anello, non l’ultimo; altri già vi hanno aggiunto altri anelli, i propri: quello dell’inaugurazione dell’opera alla Fenice e l’aver seguito per le sale la donna amata vestita di neri merletti, portandole come un paggio il mantello, e quello dell’ultima ora dell’anno che è finito, accorgendosi nello scendere le ampie scale del palazzo Vendramin Calergi di aver vinto trecentomila lire alla roulette. Sorgono gli alberi dai giardini dei palazzi e sono sicuro di udire il mormorio delle radici immense che aspirano la linfa della terra acquosa e il largo respiro delle foglie immerse nel cielo di una giornata simile, incredibilmente serena. Tutti i ricordi sono legati agli odori, l’aria marina isola ogni odore che ci accompagna per tutta la calle e per tutta la vita.
L’odore di pesce fritto che si espandeva dal Pilsen, accanto al bacino Orseolo, alla sera, con la fame del mio crescere e dopo tutta una giornata estiva di bagni al Lido, e non si poteva sedersi a quelle tavole, perché era il ristorante più caro di Venezia. Attraverso le vetrate dischiuse si vedevano le belle signore viennesi vestite di bianco, coi larghi cappelli di paglia e quando uscivano profumavano l’aria d’ireos. Odorava di tela fresca e stirata il mio vestito bianco da marinaio coi calzoni lunghi e l’ufficiale di marina, amante della madre del mio amico, fingeva di punirmi perché non gli avevo fatte il saluto regolare.
Erano gli stessi anni quando D’Annunzio aspettava che il frutto cadesse dall’albero, nel giardino del palazzo della Foscarina, per stringerla nell’abbraccio d’amore. Tutti i ragazzi andavano vestiti da marinai e tutte le facili signore smaniavano per gli ufficiali di marina, che poi non erano più belli degli altri uomini, ma non portavano i baffi come i loro mariti borghesi, vestivano di bianco e poi come simbolo di potenza dietro a loro vi era la corazzata coi cannoni d’acciaio, ormeggiata nel bacino di San Marco. Il pettegolezzo veneziano registrava che una facile signora, venuta dalla piccola città di terraferma per saziarsi di questi ufficiali, faceva la vita, consapevole il marito, che aveva un’alta carica amministrativa, e gli riservava come a un altro amante, il sabato di ogni settimana. Ma il grande scandalo avvenne, non quando si seppe che un grande industriale di Venezia aveva dato a quella signora cinquecento lire (mezzo milione attuale) per un incontro amoroso nel suo rarissimo letto del Settecento, ma quando si seppe che quella, stupidamente, aveva perduto la borsetta col danaro dentro.
Erano gli stessi anni in cui il principe Danilo del Montenegro aveva perduto centomila lire al giuoco (l’intero patrimonio del piccolo Stato adriatico) e un giovane d’affari, alle prime armi, riuscì a procurargliele entro ventiquattr’ore con l’aiuto di una ricca contessa amica, salvando l’onore del Montenegro e della casa reale d’Italia. Affare che, dopo falliti tentativi d’importare uova marce dalla Serbia, gli attribuì la fama di esperto nei problemi del Medio Oriente, fino a diventare in pochi anni diplomatico, finanziere e uno degli uomini più importanti della città e della nazione.
Erano i tempi in cui una giovinetta, accompagnata dalla madre, mentre ammirava la vetrina di un gioielliere sotto alle Procuratie, si sentì chiedere da un vecchio signore che le si era fatto vicino, quale gioiello desiderava e indicato un anello con smeraldo, quegli entrò a comprarglielo. Quel signore era un principe greco ed ebbe la giovinetta per amante fino alla morte, lasciandole come ultimo dono il suo palazzo vicino alla Salute.
In quegli anni, al principio del secolo, la contessa russa Tarnowska, come per fare una prova di veleno, sulla terrazza dell’Hòtel des Bains, mischiava la cenere della sua sigaretta nella tazza di champagne del conte Kamarosky, che poi fece uccidere dall’amante Naumov. E questi al processo, allontanato dall’aula perché preso da una crisi di pianto, fini col far piangere anche il brigadiere dei carabinieri che lo custodiva.
Allora non si aveva paura dei russi e del comunismo; anzi lo si sfidava allegramente e nel carnevale del 1908 si era stabilito, come veglione, una Cavalchina rossa col colore rosso che predominava nei vestiti delle dame, nei costumi delle maschere, nelle marsine degli uomini. Riferiva la cronaca del “Gazzettino”: «I più modesti portano un fiore e la cravatta o un nastro rosso e il gilet rosso e qualche bello spirito porta il fez, e uno addirittura un elegante cappello rosso».
Venezia, al principio del secolo, era una città dove nel palcoscenico fantasioso di piazza San Marco avvenivano grandi dialoghi, grandi scene, grandi capitoli di romanzo.
L’imperatore Guglielmo, col suo braccio paralizzato, come è destino che in Germania si abbia sempre un imperatore o un dittatore, veniva a trovare la sua amica, quella che chiamavano: la Dogaressa. La visita avveniva da una parte e dall’altra proprio come tra due regnanti. Uno galleggiava nella sua nave bianca, l’altra nel suo palazzo sul Canal Grande. Solo il cronista del “Gazzettino”, col suo coraggio sarcastico da gondoliere, segnalava, a visita finita, che i camerieri della Dogaressa si erano lagnati per le scarse mance lasciate dall’imperatore. E il personale privato della Dogaressa portato a far stimare i gioielli avuti in dono dalle mani imperiali, veniva avvertito che erano falsi. La chiacchiera del caffè Florian raccontava come frammenti di storia, queste battute ancora oggi ricordate. Una contessa soleva ricevere alle due del pomeriggio, ora in cui il marito era sempre assente, il suo amante che era uno scrittore e critico d’arte tanto considerato da essere fatto senatore. Un giorno, contrariamente alla regola, il marito rientrò nel momento in cui il celebre amante di sua moglie usciva dal suo palazzo e come se niente fosse gli disse: «Xe le queste ore de andar a la Carampane?». Le Carampane, allora, erano certe calli malfamate di Venezia.
L’altra scena riguardava un altro conte il quale, rincasando di notte, si accorse che l’amante della moglie si era nascosto sotto al letto, ma finse di non averlo visto e si mise a dormire. Alla mattina, quando venne la cameriera a portare il caffè, le ordinò un’altra tazza e nell’offrirla all’altro che stava ancora sotto al letto, gli chiese: «Lo volo col succaro o senza?».
Venezia era stata quel miraggio che aveva fatto perdere, al vento del treno in corsa sul ponte della laguna, il cappello di paglia a Riccardo Wagner, arrivando per la prima volta, mentre si sporgeva entusiasta fuori dal finestrino. E Marcel Proust si divertiva a sperdersi nel labirinto orientale delle calli per trovare analogia tra i mascheroni di pietra infissi al culmine dell’arco dei portali con quelli dei battenti delle vecchie case di Balbec.
Fu una città anadiomene, come Venere: nata dalla schiuma del mare e l’amore parve essere veramente a casa sua. Vi erano quegli ufficiali di marina, vestiti di bianco e ben rasati, vi erano quelle signore facili, come ribelli alle strettoie della vita borghese, come antesignane della libertà sessuale della donna moderna, vi erano le sinuose viennesi sotto ai larghi cappelli di paglia, vi erano quelle contesse russe paranoiche e quei russi succubi e lacrimosi, di cui si è perduta la semenza, vi erano le popolane veneziane coi variopinti scialli dalle lunghe frange che vivevano nelle loro avventure e ancora vi era la principessa Letizia, che dal balcone del palazzo reale ascoltava nella notte il concerto in piazza, scintillando negli orecchini di diamanti, ma più negli occhi esasperati di follia. Poi venne Thomas Mann con la sua “Morte a Venezia” e la anadiomene non fu più venerea, ma androgina. Tutti gli androgini del mondo vollero rasentare la morte a Venezia in una giornata estiva di afa, storditi dalla salsedine dei canali. Fu un ciclo fatale. Un grande albergatore diceva che non sapeva come impedire che il suo albergo fosse prediletto dai grandi e ricchi androgini internazionali. Una fatalità, per quell’albergo, di questo genere non solo umano, ma animale. Aveva fatto venire dall’Oriente alcune coppie preziose di certe anitre, sperando di far razza e invece erano anch’esse androgine. Fece ancora venire pesci stupendi dalle lunghe pinne ebbene, anche questi non prolificarono.
Certo è una città di miracoli se si pensa che sulla soglia del secolo due uomini, come il poeta Riccardo Selvatico e Antonio Fradeletto hanno avuto l’idea di fondare l’istituto di una esposizione interazionale d’arte, che oramai ha una fama immortale nel mondo, e che in mezzo secolo due patriarchi di questa città sono stati eletti al pontificato. Ma la sua fama supera sempre i fatti della sua storia per il contributo degli artisti che sono nati qui o di quelli che vi sono venuti a vivere sia pure per un giorno solo. E se non vi scoprono che la luce del suo cielo riflesso dalla laguna, vi scoprono come Edgardo Poe la possibilità di farla sussistere in un suo racconto coi celebri palazzi tutti orientati diversamente da quello che sono in realtà o come Federico Nietzsche, che trova i baicoli così semidivini da immaginare siano il pane del suo superuomo. E Cocteau vi scopre che è la città più strana del mondo, perché i cavalli stanno sospesi sull’alto della Chiesa, mentre i colombi zampettano per la piazza.
Una città che non perde mai l’estro del suo umorismo e della sua satira, neanche nei momenti più duri di crollo, di decadenza e di oppressione. Così che i nobili patrizi perduta ogni potenza si riducono a ricamare fantasie nei limiti del buon mangiare e definiscono bizantinamente il branzino: il cappone del mare. Oppure al famoso incontro di Mussolini con Hitler si rifiutano di esporre le bandiere ai poggioli dei loro palazzi in segno di profetica ostilità per questa posizione della politica italiana di allora. E quando viene abbattuto il primo aereo della Raf, il popolo delle Zattere attornia gli aviatori inglesi per chiedere a loro l’autografo, così che all’indignazione del prefetto fascista che gridava: «Impossibile che questi veneziani non riescano a odiare gli inglesi», un veneziano presente gli contraddisse: «Cossa volo, ecelenza, i xe i primi foresti che i vede». Napoleone se aveva abbattuto la Serenissima e avvilito i patrizi, non ha potuto resistere più di tre giorni alla satira dei gondolieri. È una strana città che per tre mesi all’anno è la capitale del mondo e per gli altri mesi è un piccolo, puntiglioso e limitato capoluogo di provincia, dove le autorità s’inorgogliscono per avere sede negli stessi palazzi dove un tempo risiedevano i dominanti. Dove il discorso è difficile a incatenarsi con persone che credono d’appartenere alla cultura, dove l’intelligenza viene sommersa dalla nebbia e dallo scirocco.
E allora ci si diverte a favoleggiare una sua fine e distruzione totale come fosse un anacronismo inservibile. Come qualche mese addietro, quando l’incendio d’una petroliera, nel vicino porto di Marghera, minacciò di mandare la nafta ardente e galleggiante sulle acque, sospinta dal vento, verso la città anadiomene e se l’avesse investita tutto sarebbe bruciato: la Biennale coi capolavori di Burri e di Vedova, la Guggenheim coi suoi tesori di Kandinsky e di Tanguy, l’archivio di Stato con tutti i documenti ancora inesplorati, il Conservatorio Musicale che non sa conservare il grande patrimonio di musica veneziana, la Fondazione Cini con le sue adunanze mistiche o interessate alla ionizzazione della stratosfera, il Palazzo Grassi colle opere d’arte della natura, dato che non è più sperabile siano fatte dall’uomo e l’Ente locale del turismo che per attrarre i forestieri organizza, al Lido, tiri al piccione e concorsi ippici. Tutto sarebbe stato arso e distrutto e forse solo si sarebbe salvato il Patriarca, facendogli prendere in fretta l’ascensore del campanile che l’avrebbe portato alla sommità vicino all’angelo dorato protettore. Ma Venezia non verrà distrutta perché è troppo amata nel mondo ed è come un organo vitale indispensabile per l’umanità e potrebbe solo morire se tutta l’umanità morisse. È certo però che se i veneziani prima e se gli italiani poi non pensano ad avere cura di essa nei suoi problemi sempre vivi e tormentosi per inserirla nelle necessità della vita moderna, molti finiscono coll’intepidirsi nel loro amore.
da L’Espresso Mese, numero 3 Marzo 1961
Immagine in evidenza: Foto di Chait Goli