Una storia di padri e figli, in cui il conflitto più atavico si libera dalle scorie di Edipo, dalla polverizzazione della figura guida. Questa la cifra essenziale de I famelici di Davide D’Urso (Bompiani, 2021), un’opera senza formati, imperniata sulla ricerca di un equilibrio fragile, di un confronto privo di attriti violenti. La materia, delicata e urticante al tempo, è sottoposta alle ‘costrizioni’ del dato autobiografico, via via smussato dall’incursione nell’alveo dei generi mescolati, dal romanzo di famiglia al racconto post-ideologico.
Non tragga in inganno la compostezza degli argomenti, il pacato, ironico, sostare tra le pause del discorso; quella di D’Urso è una prosa inquieta, la traduzione di un numero imprecisato di malesseri, dubbi, abbandoni e nostalgie. Sembra di leggere un diario minimo, in cui la pratica della rimemorazione si articola in frammenti visivi, in immagini che prendono corpo esorbitando la loro forma primaria, come a corrodere per iperbole gli schemi frusti del senso comune. Tutto, in questo romanzo tenero e riflessivo, è tramato di eccessi, rivela situazioni paradossali narrate attraverso un minuzioso quanto assurdo resoconto memoriale, a indicare una nuova chiave di accesso ai rapporti, al legame spesso dolente tra Padre e Figlio. Basti un solo prelievo, esemplificativo dello scarto generazionale eppure già portatore – nella sua illogicità – di specifiche revisioni: «“Approfittando del fatto che non ci sono altri piani e che il soffitto risulta essere il pavimento del terrazzo…” Approfittando. Quante volte gli ho sentito prospettare i suoi deliranti propositi partendo da questa premessa. “… noi possiamo rompere il soffitto e costruire una piscina. Una piscina da cui ti serviresti dal terrazzo ma il cui fondo si vedrebbe dal tuo appartamento. Pensa quanto sarebbe elegante! L’ambiente riceverebbe molta luce e vedresti la gente farsi il bagno. Immagina la tua donna calarsi sott’acqua per salutarti dal vetro: come una sirena!” Sono senza parole».
È questa cerebrale supponenza senza atto, questo esitare davanti ai gesti, alle visioni pur molto ingenue a fare del figlio e io narrante un campione di disincanto. L’autore lo afferma, lasciando parlare le circostanze: l’elezione a maestro di un intellettuale affabulatore; la condanna senza appello di uno zio ‘inguaiato’; lo stentato, posticcio orgoglio dinnanzi ai parenti lontani. Ogni manicheismo è dissezionato, svuotato dall’interno, sino a mostrare la compresenza di zone d’ombra, di territori in cui è possibile comunicare al di là degli schemi, seguendo regole poco aderenti a quelle di un panorama bidimensionale, costretto in fiacche dicotomie.
Lo stesso titolo, I famelici, allude alla voracità imputata ai figli del ‘boom’, a quella smania di possesso che qui diviene – anche – fame d’amore, di un riscatto economico mai privo di etica, come mostra la vicenda di Serafino, dignitoso fino alla morte – aiutato, con ogni mezzo, da questo padre straordinario. Sovvertendo la riproducibilità meccanica dei discorsi in serie, D’Urso tenta un’archeologia del presente saldando insieme il cogito dell’età adulta e i frammentari, e pur precisi, episodi del passato, in un continuum dialettico fra vissuto personale e storia collettiva.
La lucidità che permea l’analisi conserva un tono felice, è un grimaldello per scardinare le narrazioni distratte, per rimestare nel vuoto di certezze traballanti. Tutto è scarnificato, fatto a pezzi nella sua pochezza: «Un giorno, mentre gonfio d’indignazione m’infervoravo contro il suo Berlusconi, mi rivolse una domanda. Mi chiese cosa ne pensassi della nuova legge sugli assegni postdatati. Silenzio. Non avevo idea di cosa mi stesse dicendo. Ero uno studente e non disponevo di un conto corrente, figuriamoci di un libretto d’assegni. Anzi, a ripensarci, credo che fino ad allora non avessi mai pronunciato la parola “assegno”. Una semplice domanda aveva messo in luce il rapporto sostanzialmente nebuloso che avevo con la realtà».
Questa sospensione perenne, il senso di inadeguatezza strisciante, implacabile, mostra l’imbroglio di certi miti, del culto dell’apparenza costruita sulle posture, sui rapporti effimeri con gli ambienti che ‘contano’. Il figlio, così saldo – così chiuso – nella sua superiorità intellettuale, riconosce ex post il valore del fare, un attaccamento alla vita che passa per sacrifici ed espedienti, per trovate grossolane dal sapore spontaneo. È l’ironia a operare lo scavo, a rovesciare ogni condanna in un tentativo di comprensione, come a voler planare sulle difficoltà, sulla superficie mai piana di questo nostro reale. Tutto converge verso un punto di contatto, alla ricerca di un nuovo ordine che sia silenzio e frastuono, tranquillità e caos. Come la vita, al di là degli sforzi inutili.
Ginevra Amadio
L’Intervista
(Ginevra Amadio): Uno dei fuochi de I famelici è l’identità familiare, al di là dello scontro: è la lingua il codice di riconoscimento, il mezzo mediante cui ritrovarsi, inventare un campo di tregua. Le «trastole», «o’ piezz e carta», a «sfaccimma», tutto istituisce legami, al di là del tempo e delle distanze generazionali. Che importanza hanno questi segni?
(Davide D’Urso): Sto lavorando a un racconto il cui nucleo principale ruota attorno a un’esperienza personale; durante un corso per librai mi capitò di incontrare persone provenienti da vari angoli d’Italia e mai come in quell’occasione feci ricorso alla lingua napoletana. Si trattava di una tensione verso le origini, come se in quel codice io ritrovassi me stesso. Ma c’è anche un passaggio ne I famelici in cui affermo che quando ho bisogno di fare ordine nella mia testa, dare forma ai pensieri, mi occorre l’italiano. L’italiano è la lingua capace di cogliere le sfumature, di restituire il senso delle cose. In questo continuo girovagare tra due lingue riconosco nella mia generazione un ponte tra passato e futuro; e, tante volte, anche uno smarrimento di cui il linguaggio è solo il corollario di uno spaesamento esistenziale di più ampie dimensioni.
La frattura generazionale al centro de I famelici si nutre di contrapposizione e affetto, di aspirazioni e ideali frustrati. Un senso di tenerezza serpeggia in queste pagine, ed è come assistere a un duplice perdono: nei confronti di sé, di certi manicheismi, e nei riguardi del padre, ipostasi di un tempo altro, erroneamente giudicato ‘facile’. Cosa ha significato parlare di questo?
Spesso mi chiedono se il romanzo è autobiografico e io non posso che confermarlo, le vicende di questo Figlio sono le mie, i discorsi con il Padre si nutrono dei confronti che ho avuto in casa, di quanto ho visto, vissuto, assorbito. Tuttavia, a differenza dell’autobiografia di molta prosa contemporanea – sempre più dolente, pronta a strizzare l’occhio al lettore – questo testo è piuttosto il racconto e l’autobiografia di una nevrosi collettiva. In questo senso, i protagonisti ci parlano, hanno qualcosa in comune capace di abbattere le barriere anagrafiche – ovvero la crisi della piccola borghesia: quella dei padri, che dopo la forsennata corsa al benessere si ritrovano a convivere con un vuoto di senso; e quella dei figli, smarriti, precari, e senza punti di riferimento. Certo è che a questi ultimi manca un pizzico di vitalità, di quell’energia che ha attraversato la vita dei genitori. Per questa ragione mi interessava fare un confronto tra generazioni, per togliere la patina delle certezze, ‘sgrossare’ alcuni giudizi sclerotizzati, che rischiano di farsi vulgata. C’è tenerezza, è vero, perché si tratta di un’umanità sconfitta, agìta, che sconta colpe ereditate e ‘costruite’. In questo senso credo si possa parlare di misericordia, di indulgenza laica, un sentimento che scaturisce dallo stato delle cose.
La letteratura offre la possibilità di sondare il dubbio, di incontrare l’assoluto. Così il tuo romanzo, in cui i pregiudizi si sfrangiano e al centro c’è la carne, il pensiero nudo, la necessità di venire a patti con il reale. Qualche autore ti è stato di aiuto?
Io credo che il compito della letteratura sia dire la verità, o quanto meno tentare di afferrarla. Tra i suoi maggiori nemici ci sono i cliché, narrazioni vuote che si consolidano nel corso degli anni. In esergo alla prima parte del romanzo ho inserito uno stralcio da L’amaca di Michele Serra del 30 gennaio 2016, dove si legge: «La piccola borghesia che odia la cultura». Una frase che si potrebbe liquidare come superficiale. Io trovo che ci sia anche dell’altro. È come se certi discorsi si siano ormai sedimentati, divenendo materia scontata, su cui non vale la pena ragionare. La verità è un’altra: nessun piccolo borghese ha mai brandito un coltello per dare la caccia a un intellettuale. Certo, è doveroso aggiungere che quella fetta del Paese era animata da un individualismo sfrenato, che ha spesso ignorato l’idea di collettività che sta a monte delle regole. In questa prospettiva si deve continuare a raccontare, a denunciare le storture che ne sono derivate. Tuttavia, esistono persone di quella generazione che – a differenza di molti miei coetanei – sono capaci di entrare in empatia con l’altro, possiedono una rara joie de vivre. Noi siamo invece più sorvegliati, sempre ‘rigidi’, a tratti diffidenti. È questa la lezione che dobbiamo assorbire. Si è forse peccato di presunzione, avremmo dovuto frequentare I circoli politici del nostro territorio, scendere in piazza. Invece ci siamo rinchiusi, trincerati dietro un nichilismo fine a se stesso. Anche Tra le macerie, uscito nel 2014, trattava di un figlio sperduto – incapace di affermarsi rispetto al Reale – e di un padre risolto, inserito nel mondo e nel suo tempo. Poi è stato il momento de I famelici, a dimostrazione di come esistano delle costanti tematiche nel mio modo di fare letteratura. Il mio amico Fabrizio Coscia, un vero intellettuale, sostiene che questo romanzo è frutto di un’ossessione, ed è un bene poiché senza ossessioni non si scrivono libri autentici. Se c’è un nume tutelare nella mia scrittura? Direi Comisso, La Capria, Parise, Fabrizia Ramondino. Ci tengo a menzionare anche Antonio Franchini, autore – tra le altre cose – di Quando vi ucciderete, maestro?, una delle vette della letteratura ibrida, e Silvio Perrella, un punto di riferimento imprescindibile per quanto mi riguarda. C’è da dire, tuttavia, che io preferisco ‘perseguitare’ i maestri piuttosto che idolatrarli. Desidero porre domande, nutrirmi del loro esempio, delle loro parole ‘vive’. Così è anche per la critica letteraria, altra miniera essenziale. Questo libro non sarebbe mai nato se non avessi studiato Filippo La Porta, Massimo Onofri, Raffaele Manica, Geno Pampaloni, Raffaello Palumbo Mosca.
Ancora sulle parole. Il tuo romanzo pesca dal cinema, nomina pellicole come In nome del popolo italiano, Straziami ma di baci saziami di Dino Risi, rievoca Fellini, Gassman, Sordi. Da questa fonte derivano immagini accecanti, quasi rivelatorie, che si traducono in passaggi vivi, personalissimi perché imbevuti del vissuto, della corrispondenza col proprio mondo. Quanto peso ha la settima arte nel tuo percorso intellettuale e umano?
Moltissimo, amo il cinema. Dopo aver passato anni a studiare la grande stagione del cinema italiano, è stato con Mario Martone che ho avuto finalmente la possibilità di misurarmi con un autore coevo. È stato fondamentale confrontarsi con un artista che affronta, con codici diversi, problemi e aspetti che appartengono a un medesimo presente. A un certo punto ho preso a studiare cinema, ho persino girato dei cortometraggi. Mi ha sempre affascinato l’idea di parlare per immagini, anche se poi ho preferito continuare con le parole. Tra i grandi registi del passato quello che sento più affine è Fellini, forse per certe sue debolezze, forse perché era un piccolo-borghese che, come me, viene dalla provincia. Mi ha sempre attratto, inoltre, il modo in cui i suoi film si congedavano dal pubblico; lo sforzo cioè di escogitare non dico un lieto fine ma un epilogo che in qualche modo lasciasse un barlume di speranza; una tentazione che anch’io ho accarezzato, come dimostra il buffo epilogo de I famelici. Penso che, una volta raccontata la verità – per quanto dolorosa – sia bene congedarsi con un sorriso. La vita va onorata, a prescindere dalle storture, dagli inciampi del quotidiano.
La memoria collettiva del Paese si annida negli scarti, negli interstizi che le tue immagini riescono a cogliere. È come se il lettore fosse invitato a scrutare i segni del corpo, le espressioni del viso, indici che dimostrano che è oltre il visibile – oltre le apparenze – il senso ultimo delle cose.
Mi piacciono le storie in cui si riserva al corpo una grande attenzione. In un passaggio del romanzo si assiste a un tonfo, a un crollo fisico del padre che ha qualcosa di simbolico. Mi è capitato di ascoltare la lettura di quell’episodio durante una presentazione ed è stato illuminante, come se il corpo in questione si espandesse al di là del personaggio. In effetti, tutte le descrizioni relative alla gestualità riguardano il padre, la madre, gli appartenenti a quella generazione. Loro parlano con gli sguardi, con le mani che si muovono affannosamente, come se esprimessero con più facilità ciò che hanno nel cuore. Il figlio invece è più asettico, freddo, ancora una volta chiuso nel bozzolo dell’autocontrollo, della difesa contro il mondo. Ha un approccio cerebrale alle cose della vita che forse meriterebbero più trasporto, una maggiore visceralità. Anche questo è un segno, la rappresentazione di una paura intensa. Nessuno nega che questi siano tempi complicatissimi, ma al di là del presente io credo che sia una questione di indole, la conferma che qualcosa si è raffreddato. Nel libro c’è un passo in cui l’io narrante si accorge della gratuità con cui la madre si occupa delle persone che la circondano e riconosce la sua incapacità a un simile slancio. Mi auguro che questo nodo possa sciogliersi, che le prossime generazioni ritrovino dentro se un po’ di calore. In una delle ultime presentazioni io e i miei interlocutori ci siamo divertiti a pungolare i ragazzi, dicendo loro di rappresentare, noi, degli ottimo esempi: esempi da non seguire! C’è necessità di tornare tra le persone, di uscire dallo spazio della propria individualità. Mi sembra questa la vera urgenza che il nostro presente deve affrontare
Immagine in evidenza: foto di Piergiorgio Branzi (part.)