Il silenzio della calle, alle prime luci dell’alba, viene rotto dalle imposte sbattute dal vento che ha mutato direzione. Poi improvvisa una voce grida entusiasta:
— Pomi, peri, perseghi, che ua…
E sugli ultimi confini del sogno ci riappare un fregio di Luca della Robbia visto un giorno sulla porta d’un convento, tutto pomi, pere, pesche ed uva. Il silenzio ritorna per un attimo nella gravezza dell’aria marina e poi la stessa voce riprende più forte, sotto la finestra:
— Pomidori da riso, done…
L’ultima parola è dolce e prolungata sommessamente come volesse risvegliare chi dorme ancora. Le porte si aprono, si sentono le donne che fanno le compere, il tintinnio d’una moneta caduta, il cigolio della carriola che si allontana. Non passa molto tempo che un’altra voce avanza dal fondo della calle, aspra e incomprensibile: una voce di donna che predica il destino, tagliente, severa:
— Pomi, peri, perseghi, fighi, ua, done… — e con voce chiara e ferma:
— Lugiana dolse. — È l’uva di luglio.
Il grido si ripete ancora, già è dall’altra parte della calle e rapido scompare. Subito dopo segue una voce concisa d’uomo:
— Late.
Altre porte si aprono, si sentono due donne parlare sottovoce, poi a intervalli una campanella battuta e un trepestio frettoloso. È un prete con un piccolo chierico seguito da alcune donne con lo scialletto sul capo che vanno a portare l’Olio Santo a qualche infermo.
Altri richiami di venditrici, altri cigolii di carriole passano e s’intrecciano:
— Spighe fresche, done, le sa da vedelo… — È una venditrice di pannocchie arroste, con un cappello di paglia nero in testa, curva e lenta. Ella paragona il sapore delle sue pannocchie a quello del vitello. Oramai la calle si popola di voci e di passi: le ragazze hanno portato di fuori i loro telai, le piccole sedie e si mettono a tessere i merletti. Le donne chiacchierano dalle finestre in attesa del postino, e al suo arrivo qualche ragazza dal volto impallidito dal lavoro solleva lo sguardo per chiedergli quasi implorante:
— E per me, niente?
Ora, un richiamo segue l’altro, come per vincerlo e superarlo nella gara per vendere: le voci si fanno più insinuanti. più dolci, più canore:
— Gavemo l’America! — È l’annuncio generoso d’una venditrice di patate americane. —- Fiapolini dolsi, done, e che bela pergola. — Sono fichi maturi e uva di pergola. — Perseghi da tavola bianca, — altrove si grida, e l’immagine attrae dominante. Poi un’altra, sicura di farsi più allettevole, grida, quasi sorridente:
— Perseghi da marìo e mugér. — Pesche da marito e moglie, come per dire: per incoronare l’amore.
Tutta la calle risuona: chiacchiere, strilli di bambini, gente che si richiama e le ragazze che di tanto in tanto s’accompagnano al lavoro col canto, poi ancora una frase gridata solenne e martellata:
— Suca baruca, che sa da carne, done…
E quel done affettuoso, in tono minore, si diffonde e si sperde. La calle congiunge la riva sul canale con la strada principale della città. Fino a metà da un lato ci sono dei bassi portici che trattengono l’ombra come grotte. Le case hanno le facciate alte e strette, sul tetto spuntano fitti e sgretolati dal vento i camini. La calce è in grande parte caduta dalle facciate scoprendo i mattoni rossi, e dove c‘è ancora, lungo la strada, i ragazzi vi hanno disegnato degli informi velieri. Sul mezzogiorno, con l’odore di fritto che s’espande dalle cucine, la calle si fa deserta e silenziosa, ma solo per poco tempo, ché subito i ragazzi impazienti di stare rinchiusi nelle piccole case escono ad iniziare violente partite di calcio, fino a quando le ragazze non riprendono il lavoro dei telai. Col declinare del giorno, quando il sole arriva a illuminare, la parte della calle verso i bassi portici, il vocìo si fa più raccolto e sommesso. Sono donne che conversano lente, qualche nonna, tutt’occhi neri nel bianco delle guance disfatte, che al nipotino cullato sulle ginocchia scarne racconta una favola: — Bertoldin gera piccolo, piccolo… — Più in là si eleva monotona la voce d’un’altra che estrae i numeri della tombola: — Le gambe de le done. Le ochete. L’albero de la nave. Quei che porta la cassa da morto… — Ogni numero viene sostituito da un’imagine. La voce s’interrompe per una vincita che suscita subito una disputa: allora si stride, le gole, vibrano; le offese, le imprecazioni corrono irruenti; il chiasso dura interminabile con l’estro di rompere la noia, di vendicarsi contro il destino che le obbliga per tutta la vita dalla mattina alla sera a quella calle, sempre la stessa.
— Bovoi, agio e ogio. — È il venditore di chioccioline condite con aglio e olio. Il catino poggiato sul fianco, un largo cappello di paglia sbandato sul capo. Questo cibo eccita l’avidità delle donne, che subito si placano. Ma poco dopo il ragazzo dell’osteria di fronte, che dalla finestra ha visto passare una delle donne più bisbetiche della calle, preso un catino d’acqua glielo rovescia tutto sulla testa. La donna, come colpita da una tegola, cade a terra svenuta. Due o tre si precipitano a sollevarla, straluna gli occhi, si afferra al vuoto, borbotta d’essere portata a casa, le mettono dell’aceto sotto al naso, rinviene, prontamente si accomoda le vesti, perché ha inteso qualcuno dire che le si vedevano le gambe, e se ne va scarmigliata e tremante. Intanto la madre del ragazzo si mette a inveire contro di lui. minaccia di ammazzarlo; il ragazzo sta nascosto nella sua camera e ride, trionfante, perché sente gli uomini dire che ha fatto bene a spegnerle i bollori. Ma ecco, come una furia, la donna che egli ha bagnato ritornare, mutata di vestito, incipriata in volto, furente negli occhi, preceduta e seguita da uno stuolo di ragazzi, di bambine e di donne. Urla stridula e si pianta davanti alla madre del ragazzo. Alza ambe le braccia a pugni chiusi e urla, si affonda le mani nei capelli ed impreca e minaccia: — Perché quello che sono capace di fare io nessuno lo sa: io sono capace di tirare il collo a voi, al vostro uomo e del vostro ragazzo fare uno straccio… — Ringhia, ulula, tutte le parole diventano sibili; pallida e imbizzarrita rasenta col suo volto quello dell’altra donna, la sfiora ma non la tocca. L’altra tace, subisce. La calle è fitta di gente avida in attesa che l’altra scatti e risponda, ma questa tace e subisce. Infine la violenta, sicura d’essersi rifatta, se ne va impettita: la folla rimane, mormora e commenta, poi si dirada, si dilegua e la calle ritorna come prima. Le ragazze ritornano a curvare la testa sul telaio, aguzzando gli occhi ora che la luce scompare. Le dita scarne tremano sui bianchi merletti. Ogni tanto spiano verso il fondo della calle che dà sulla strada principale per vedere se qualcuno avanza. Finalmente, ecco, un forestiero: alzano appena lo sguardo dal telaio, ma riescono a osservarlo minutamente dalla testa ai piedi e subito incominciano a cantare. Un canto dolce, in mezzo tono, accordato alla volontà di lasciare un ricordo nel cuore di chi passa. Qualcuna. stanca del suo lavoro come di una pena, mormora: — Sempre qua, io, e nessuno che venga a portarmi via da questo paese. — E alzato di scatto tutto il capo come per ravvivarlo di sangue, riguarda con occhi amorosi il forestiero che s’allontana, poi si giustifica verso le compagne:
— Credevo fosse mio cugino, quello che èvia per il mondo: gli somiglia tutto nel camminare… — E ritorna a chinarsi sul bianco merletto attraverso cui, come per rabbia, passa lo spillo.
Con lo scendere delle ombre, da ogni angolo sbucano dei bambini, vanno di qua e di là e canticchiano: pare che la sera dia loro un indistinto piacere. È una cantilena che scorre rasente alle pietre come un’acqua. Cresce e si eleva riecheggiata dalle pareti delle case. Sembra che vogliano imitare i grandi nei loro canti notturni. Sono bambini appena decenni dalle grosse teste rotonde e biondastre, lustri negli occhi, snelli e diritti, già predestinati alle manovre delle vele. Ma il sonno viene con la stanchezza per tutta una giornata trascorsa in salti dalla riva alle barche attraccate, a nuotare, nell’acqua melmosa, a rincorrersi e a giuocare, e anche il loro canto si smorza e scompare.
Dopo, fino alle prime ore della notte, non rimangono che le chiacchiere delle donne sedute sulla porta della loro casa. Chiacchiere lente nella penombra. Commentano gli avvenimenti del giorno, rammentano il passato della loro vita, poi chiudono le porte. Poi a notte tarda altre voci di figure nascoste sussurrano. È l’amore che ha il suo brusio, Una porta si apre, una imposta cigola sbattuta dal vento. Un’orchestrina svolta a un angolo e s’interna nel fitto delle calli. Un gruppo di pescatori viene avanti cantando, il canto risuona tra le case come sotto a navate e sale fino alle stanze dove le giovanette dormono con le finestre socchiuse. Poi torna il silenzio. Si sente da lontano lo scroscio del mare sulle dighe e il vento che sibila tra il cordame dei velieri. Una porta viene chiusa adagio, qualcuno è uscito. Si sente un passo d’uomo andarsene, ma più avanti prende a cantare, come per farsi sentire da chi ha lasciato nella casa, il motivo della canzone dei pescatori di poco prima. Pare che quelle parole gli sieno particolarmente care, come se quando le intese vivesse il suo momento più dolce. Ritorna il silenzio. Dentro a una stanza una voce roca domanda: — Che ora è? — e un’altra trasognata risponde: —- Le quattro. — Ancora sibila il vento. Poi dalla riva un uomo chiama, annunzia che il vento è buono e che è ora di partire. Sono marinai che partono. Ma spesso nella notte si sentono furiosi colpi alle porte e voci ardenti che gridano un nome di donna, perché apra. Sono marinai che ritornano.
Giovanni Comisso
da il Corriere della Sera del 22/09/1931
Tutte le immagini: Chioggia – Kolorierung des Dias durch Margrit Wehrli-Frey (di Leo Wehrli, fonte Wikimedia Commons)