Nel 1964 Marino Buffoni era un giovane studente della Facoltà di lettere di Pisa al quale il prof. Silvio Guarnieri aveva assegnato una tesi su Comisso.
Il professor Guarnieri, che divenne in seguito membro della Giuria Tecnica del Premio Comisso, fu il curatore assieme a Buffoni, dell’edizione del volume di Comisso “Pesca notturna e altre pagine” pubblicato dall’editore Mursia, nel 1964 e ristampato nel 1969.
Vi proponiamo il resoconto della prima visita fatta da Buffoni a Santa Maria del Rovere su invito di Comisso stesso nel 1964.
Un pomeriggio a Santa Maria del Rovere.
“Dopo un appuntamento telefonico rimandato non so per quale motivo, mi venne confermato che potevo andare il due agosto (1964). Partii da Feltre col primo treno e giunsi a Treviso di prima mattina. Conoscevo poco la città, così girovagai col naso in aria per strade e chiese, piazze e canali e, dopo aver pranzato in un ristorante del centro, telefonai a Comisso per avvisarlo che sarei andato da lui.
La casa di Comisso era la prima a sinistra della strada che mi aveva indicato, ma se ne vedeva solo il retro, perché l’ingresso si trovava dal lato opposto e guardava un orto che godeva di un abbandono totale. Saliti i pochi scalini della veranda, bussai alla porta aperta, ma nessuno mi rispose, così mi affacciai e vidi Comisso in calzoni corti, ciabatte e T-shirt seduto in cucina, con le mani sul tavolo e la schiena abbandonata sulla spalliera. Si stava rilassando; non era andato a riposare per timore che scendessi alla fermata sbagliata, com’era successo ad altri. Non capii cosa avrebbe potuto fare, se mi fosse capitato quello che temeva.
Mi fece sedere al tavolo di una sala la cui finestra dava sulla via da cui ero arrivato e fece portare una bottiglia di “quel tocaetto che mi regala il mio amico”con un vassoio pieno di bicchieri. Mentre si muoveva sbuffando, maledisse a più riprese il progettista della casa.
“L’ho chiesta comoda, compresa di orto e cantina, e ha progettato le montagne russe. Non si fa che scendere e salire.” Respirò forte, come chi ha il fiato grosso per la fatica. “Non si camminava così nelle mie case passate. Quella nuova è in centro, come era quella di mia mamma. Hanno espropriato quel terreno per farne una piazza. Senti che crudeltà. Un giorno sono andato a sedermi là e mi sembrava che nella mia stanza fosse cresciuta una pianta, e nella casa non ci fosse più il tetto, e mi affannavo di riparare i miei libri sparsi per un’aiuola. È stato dolorante, non ci sono più ritornato. Perché si devono patire queste ingiustizie? Il terreno della nuova casa mi è costato un occhio, ma entrerò dalla finestra come gli antichi dogi”.
Mi offrì del buon tocai in un grande calice di cristallo che aveva perduto quasi completamente la decorazione in oro e mostrava qualche leggera scheggiatura nello stelo. In quel mentre entrò il figlio di Gigetto con fare mortificato e l’antologia aperta su una poesia di Saba che doveva commentare.
“Si torturano i bambini da quando nascono, prima in casa e ora a scuola.” Dopo una breve pausa, si rivolse a me: “Dagli una mano, poi parliamo”.
Parafrasai il testo e suggerii al ragazzo quello che avrebbe dovuto scrivere. Se ne andò un po’ imbronciato e tornò poco dopo a farmi correggere la paginetta che aveva buttato giù di malavoglia. Non capii la storia dei compiti: erano quelli estivi o si stava preparando per gli esami di riparazione?
Uscito il ragazzo, Comisso guardò l’orologio e disse che aspettava un inviato del Gazzettino per un’intervista sul teatro. Una giornalista entrò all’ora stabilita, aprì il taccuino, e lui, con mia grande meraviglia, mi volle accanto e sottovoce mi chiese di aiutarlo. Dopo aver scattato alcune foto, la giovane gli propose di rispondere a un questionario che stava sottoponendo a tutti quelli che intervistava, ma lui la bloccò affermando di preferire una cosa più personale, quindi iniziò un monologo, evidentemente preparato in precedenza, sulle sue esperienze teatrali a Roma con Anton Giulio Bragaglia. Intervenni un paio di volte, su questioni che credevo di conoscere a proposito di Goldoni e Brecht, ma capii che le mie osservazioni si allontanavano troppo da quello che lui sta dicendo. Alla fine, si fece rileggere il testo dell’intervista e, quando sentì che quanto avevo detto figurava sotto forma di domande a cui lui tentava di rispondere, disse che andava bene.
La giornalista se ne andò senza aver assaggiato il vino che le era stato offerto, ed io presi il quaderno con le domande che avevo preparato, anche se, conoscendo la sua tendenza a ripetere le stesse cose, non mi aspettavo molto di più di una rivisitazione di affermazioni e riflessioni che conoscevo. Sia il prof che la moglie, ripensando alla cena, erano stati concordi nell’affermare che stava invecchiando e mostrava solo a tratti l’antico smalto del conversatore brillante. Scelsi per tanto quelle che avrebbero potuto piacergli, rimandando a un altro momento quelle più impegnative e noiose. Mi scusai per gli argomenti e lo invitai a non rispondere se non fossero stati di suo gradimento. Con mia meraviglia, rispose sempre con affabilità mostrando un certo piacere nell’addentrarsi nelle questioni. Per di più parlava lento, col tono oracolare di chi ha sempre la risposta giusta, dandomi il tempo di appuntare almeno l’essenziale.
Che valore attribuisce alla sua opera e cosa pensa che rappresenti nel panorama della letteratura italiana?
Credo che sia veramente un punto di partenza per la narrativa futura. Da tempo mi proponevo di fare una lettura di quanto mi ha preceduto nell’800. Ho fatto alcuni saggi, pubblicati dal Mondo, su Foscolo, Manzoni, Fogazzarro, D’Annunzio e Verga. Dopo tante ragazzate, come lo scrivere senza virgole e i periodi infiniti, sarà un punto di partenza.
Quando ha cominciato a scrivere, si è posto qualche scopo? E dopo?
All’inizio credevo di essere un poeta, leggevo La Voce e certe mie cose fanno pensare ad Ungaretti, ma andavo qua e là senza saper dove. Avrei voluto evitare i sentimenti e invece ci sono cascato. Non ho mai seguito programmi. Oggi è una necessità vitale per me scrivere. E tutto mi si forma narrativamente.
D’accordo su questo, ma si tratta di una vocazione della prima giovinezza o solo di una conseguenza dei casi della vita?
Tutto dipende dalla vita. Controllo e narro la vita, niente altro.
Nella letteratura italiana c’è qualche scrittore che le si avvicina? O qualche modello che ha cercato di emulare, se non imitare? Si è parlato di Cellini, Nievo, D’Annunzio.
Per gli scrittori italiani rimando a quanto ho pubblicato sul Mondo. Gli amici del giornale hanno detto basta ai miei saggi, perché turbano i lettori e non sanno che questo mi piace tanto. Certe pagine di Soldati mi piacciono. Un grande scrittore per me è Tennessee Williams, da cui potrei imparare molte cose. Ma non c’è nessun italiano moderno. Per me, agli inizi lo spirito di Cellini mi ha giovato e, in seguito, Casanova, di cui ho curato le memorie.
L’insistere sui ricordi, certi nomi come il fuggitivo e altre notizie lette sui giornali fanno pensare a Proust. Che importanza ha avuto per lei questo scrittore?
Lo citano perché è alla moda e non possono mettermi dietro qualcun altro. Scrive pagine che una volta mi sono piaciute. A Parigi se ne parlava. Per me – ma non scrivere questo – è un potente sonnifero.
E’ stato fatto anche il nome di Freud….
Sarebbe bello – ma non scrivere – dire di averlo letto. E dove lo trovavo il tempo? Ero una furia scatenata, volevo vivere e vivere. Sì, c’è la sincerità, ma c’era già in Sant’Agostino.
Si è posto anche problemi di ordine religioso?
(Fa una pausa. Ride sornione e resta a lungo senza rispondere) Certe cose si sanno. I libri? Non ne compro da tempo, perché non comprano i miei. Dovevo andare a Fiume o a Parigi con i libri nella valigia? I miei libri erano gli amici, la gente, le strade. Ho imparato lì e mi sono affinato rileggendo quello che scrivevo, per migliorarlo. Sono la mia biblioteca e la mia ossessione; senza non potrei vivere. Mi piacerebbe avere accanto chi mi leggesse ad alta voce, per modellare come un artista sulla creta.
Mi ricordai che prima di unirsi agli arditi di Fiume, aveva comperato il Protagora di Platone, avrei voluto accennarlo, ma preferii chiedergli qualcos’altro.
Ha detto Elsa de Giorgi che, se non ci fosse stato Comisso, in Italia si scriverebbe ancora come D’Annunzio. Crede che sia vero? E in che senso?
Coglie il segno. Pur essendo stato vicino a D’Annunzio, a Fiume, con Keller lo consideravamo come un nostro nemico. E io ho cercato in ogni modo di reagire e, per quanto soggiogato, di liberarmi. Ora che sto pensando a tirare i remi in barca, credo di esserci riuscito quasi del tutto.
In un’introduzione che non sono ancora riuscito a leggere afferma che D’Annunzio le ha trasmesso la fiaccola della prosa notturna. Come concilia questa affermazione con quanto ha appena detto?
D’A. ha cercato di far uscire la narrativa dal provincialismo. D’A. cerca di nobilitare la narrativa. Io vado oltre.
In che senso?
Faccio quello che a lui non è riuscito. Sì, lo miglioro: via tutto l’intellettualismo.
C’è stato, secondo lei, qualche fattore storico o familiare che le ha fatto provare insoddisfazione della vita quotidiana e, quindi, il desiderio di viaggiare in cerca di avventure?
La cadenza dei giorni di guerra ha molto determinato il mio stile e anche la mia vita. La cosa più importante è stata la mia ritirata dal Friuli. Quel ritmo è il ritmo della mia prosa. Non mi sono mai posto problemi ideologici o politici, io. Ero fuoco incandescente.
Premesso che non ho ancora letto per intero Gioco d’infanzia, le chiedo: la felicità che ostenta nella rappresentazione della sua giovinezza non è un po’ esteriore, quasi la sublimazione di certi momenti per celarne altri più dolorosi? E la ribellione, la fuga nascono solo dai contrasti con le aspirazioni della famiglia o hanno un’origine più profonda, tale da farle rasentare l’ambiguità? Se la domanda è indiscreta può non rispondere.
Voglio liquidare una volta per tutte l’argomento. La sensualità ha influito molto su di me. Nella mia giovinezza ho ottenuto tutto quello che desideravo e anche quello che non desideravo. Ero come un fior di frutteto: da mille amori escono due o tre frutti. In certi punti sono esplicito e in certi punti ho un po’ di freno: sono nato da una famiglia borghese, in una società borghese. Non ho mai sentito la necessità di essere sincero, non ho vissuto nei confessionali. Ma non giudico necessario di farne uno sbandieramento. Risulto ambiguo e non voglio farne un problema. Non una polemica. Evito la sincerità per non improntare un problema che avrei dovuto risolvere.
Mi scusi se insisto, ma vedo che vuole approfondire. Perché i rapporti con la scuola e la famiglia, per non dire dei possibili modi di inserirsi nella società, in un libro come Le mie stagioni vengono evitati o appena sfiorati?
Sarebbe stata necessaria un’impostazione stilistica che non mi appartiene. Io sono il ribelle, l’istintivo; le cause le lascio cercare alla critica. Sono amici che ci tormentano e vivono di noi. Se non ci fossi io scrittore, cosa farebbero? Provo ad essere sincero: sulle mie vicende universitarie si potrebbe scrivere un romanzo, anche se non mi divertirei a farlo. Sono passato per tante città, ho fatto tutto e non ho studiato e ho abolito parte dei ricordi. Quando si affacciavano, non li facevo emergere, perché avrebbero dato di me un’immagine falsa e loro obbedivano, non tornavano. Qualche altro se ne vergognerebbe o ci scriverebbe un romanzo del tipo di Delitto e castigo, io non sono fatto per tormentarmi e li chiudo nel cassetto.
Dopo aver vagato per diverse università, ha concluso rapidamente i suoi studi a Siena. Cosa è successo? Il cambiamento è dovuto alla città, agli incontri, agli insegnanti o a Lei stesso?
Esci da quell’ambiente e conosci i rapporti che si instaurano, la stima e l’amicizia. Gli esami si superano di conseguenza. Con te posso essere sincero come non potrei fare con altri. Non lo sai come si fa a superare un esame? Pensa e cerca di ricordare. Mi guardò serio, poi sorrise e ammiccando scandì le sillabe: Do-vre-sti sa-pe-rlo me-glio di me.
Negli ultimi libri – Le mie stagioni, La mia casa di campagna – si affaccia un senso di tristezza, di angoscia che è estraneo al Comisso scrittore felice, di istinti giovani dei primi libri. Cosa è successo?
Col passare degli anni si cerca un assestamento, non morale, ma sereno, perché certe situazioni che prima risolvevo come bere un bicchier d’acqua, con senso d’avventura elettrizzato dalla giovinezza, mi son più difficili da superare. Si potrebbe dire che, gratta gratta, tagliata su di me, finisca anche io col credere in una morale e col pormi delle limitazioni che a 15 anni non ammettevo. Andiamo verso un misticismo e sarà molto sofferente e le conseguenze si vedranno nella narrativa. Se ne vede un annunzio in Cribol che non è un libro osceno, perché osceni sono i libri di Bassani e Fondi, mentre Rousseau parla di tutto e non nausea. È un libro non valutato come merita, uno dei migliori sotto certi aspetti. Ho voluto ribadire la polemica sul romanzo. Questo – e mi porse un fascicolo con una lettera – è quello che ho scritto a Mondadori.
Lo presi e lo esaminai attentamente: era un’edizione francese di Tempo con un saggio della Bellonci intitolato Il romanzo in Italia. Sulla copertina aveva spillato questa lettera, datata 5 agosto 1942 e indirizzata all’autrice del saggio: “Ti prego di non mandarmi più queste edizioni straniere che ingombrano la mia casa e non bruciano bene”. Mentre leggevo, sbuffava, batteva le nocche sul tavolo e alla fine non seppe più trattenersi.
“La signora si è dimenticata che anch’io ho scritto romanzi. Cribol è un libro riuscito e costituisce una risposta sul corpo del reato, e ne ho in mente altri. Quando comincio….” Gli risposi che il saggio era stato scritto agli inizi degli anni quaranta, ma lui ribatté immediatamente: “Perché? Non avevo scritto Storia di un patrimonio?” Gli chiesi chi fosse quel Fondi che aveva messo accanto a Bassani. Mi fissò con un sorriso ironico: “Conoscerne uno è bene, due è troppo. Lascia la penna, e parliamo liberamente. Mi fai sentire sotto controllo: non sbagliare, non ripetere, dire balle per essere interessante”
Per me Cribol non è uno dei suoi libri migliori. Secondo lei, quali sono gli altri?
Giorni di guerra che ora è definitivo, Gente di mare, La mia casa di campagna, che era definitiva e ora invece ho ritoccato per l’edizione delle mie opere e Le mie stagioni, che mi ha fatto faticare a ricostruirlo, e dicono che prima era migliore.
Ha dimenticato Storia di un patrimonio, a cui ha fatto riferimento poco fa. Perché?
Sono immorale e sto costruendo una moralità su misura, l’ho detto. Quel romanzo rappresenta la dissipazione giovanile, ora io faticando mi sono fatto, cerco ancora di farmi, diverso, ma non mi capiscono. Sono stato subito incompreso e pochi mi hanno capito, almeno un po’, dopo. Scrivono sui miei libri e talvolta non mi giovano coi loro giudizi, anche se sono felice quando esce un saggio sui miei libri. A volte scrivere è un dialogo con loro. Se telefono in libreria per sapere come vado, mi dicono: “Sì qualche amico, sì qualche critico.” Sono amici, a qualcuno sono legato da anni, ma non sono più solo, ho adottato quei due ragazzi. Il padre è un violento, dice che li porta via. Ma dove? A vestirsi, a cercare le scarpe vengono da me.
Prese il mazzo di chiavi che pendeva da una catenella agganciata ai pantaloni, me le mostrò e le agitò facendole stridere più volte, poi si alzò per andare nell’altra stanza. Le sentii raschiare contro un armadio di metallo. Ritornò con un pacco di libri e mi disse di scegliere quello che volevo. Presi Storia di un patrimonio nell’ediz. del 63, su cui scrisse la dedica: “A Marino Buffoni, grato e scusante di averlo affaticato”. Presi in mano La mia casa di campagna, la sfogliai e provai a toccare un altro argomento.
In questo libro, nonostante il proclamato superamento degli istinti e l’affermazione della necessità dei sentimenti, non riesce a trovare un accordo coi contadini e alla fine si vede costretto a vendere terra e casa. Perché?
I contadini erano nella fase sindacale. Da padrone ero il padre. Nella fase sindacale essi erano subito in polemica col padrone e non c’era possibilità di trovare un accordo
Il sindacato ha come scopo la difesa dei lavoratori. In questo caso chiedevano forse qualcosa che il padre-padrone non voleva o non poteva concedere?
Da un lampo che gli passò negli occhi capii che il colloquio era finito: avevo toccato un tasto che gli bruciava ancora. Sentì un cane che abbaiava con rabbia nella strada e un altro gli rispondeva con uguale accanimento. Si alzò, andò alla finestra e cominciò a gridare:
“Di chi è questo cane che non fa riposare? Chiamatelo, fatelo stare zitto. Di chi è questo cane?Non sentite che tormento angosciante?”.
Visibilmente alterato, andò di nuovo a frugare tra i suoi libri e mi portò I sentimenti nell’arte. “Puoi prenderlo, ne ho ancora, e non lo legge nessuno. Sono stanco: chiacchieriamo di cose leggere. Hai ancora tanto da chiedere? E’ meglio che ritorni a Feltre e che ci incontriamo la settimana prossima. Vieni di mattina e discutiamo più a lungo: il pomeriggio mi riposo. Dal primo di settembre non sono più qui, vado nella casa nuova, in via Municipio 6. Ti scrivo l’indirizzo sul quaderno. Ti apro il mio archivio. Ti meraviglierai: ti farò leggere una cosa che sembra scritta da Ungaretti, un poeta delle tue parti.”
Gli dissi che l’avevo conosciuto qualche anno prima, quando faceva parte della giuria di un premio letterario intitolato a E. Pea. Mi ascoltò soprappensiero e mormorò: “Ho letto qualche pagina sull’Egitto, scrive una lingua lontana”. Uscì di nuovo. Lo sentii ancora armeggiare coi cassetti metallici. Ritornò con due o tre cartelle zeppe di fogli. Ne aprì una e mi mostrò un foglio su cui, sotto l’intestazione “Estratto dell’Enciclopedia italiana”, era incollato un ritaglio della Treccani, forse staccato dal volume con un temperino. Quando gli dissi che lo conoscevo, lo ritirò. Mi porse un’altra cartellina, con tanti fogli ritagliati con le forbici: era la traduzione francese di alcuni capitoli di Gioco d’infanzia, pubblicata dalla rivista francese Arcadie. Li controllò, vide che c’erano dei doppioni e mi disse che potevo prenderli.
“I doppioni li puoi tenere. L’edizione italiana sta per uscire. Ho scoperto che si può lavorare anche per sottrazione. Quello che sto facendo è stancante, non mi lascia un attimo di respiro”.
Mi porse la cartellina con la traduzione e ne prese un’altra vuota dello stesso colore, in cui inserì 30-40 ritagli, a suo dire molto importanti.
“Usali come credi; quando ritorni, me li riporti.”
Mi strinse la mano e mi batté la sinistra sulla spalla: l’incontro era terminato.
Mentre uscivo, alzai gli occhi sopra la porta e vidi un bassorilievo in terracotta, forse il S. Bovo di Martini di cui parla ne Le mie stagioni, ma non potei indugiare a osservarlo, perché Gigetto mi invitò a salire sull’auto per accompagnarmi alla stazione.
Durante il percorso mi raccontò barzellette e professò grande stima e ammirazione per Comisso, ma non per quegli amici che venivano a disturbare la casa. Non capii bene a chi né a che cosa volesse alludere e lasciai cadere la conversazione.”
Marino Buffoni