Sua madre, appena sposata, quarant’anni addietro, aveva abitato in quella città. Ella gli aveva raccontato che la sua casa era vicino ad un grande ponte, bianco nelle sue balaustrate di pietra sopra un fiume lento quasi stagnante. Felice come era per le nozze, tuttavia, quando veniva la sera, non poteva trattenere le lagrime: quella città le dava una profonda tristezza coi suoi palazzi antichi anneriti dal tempo. Grandi palazzi con atri oscuri, abitati da famiglie di nobili che protraevano la discendenza attraverso lungo scorrere di secoli. Quelle famiglie entro a quei palazzi erano come molluschi invescati in gusci contorti dalle incrostazioni marine, e certune erano proprio come pietrificate tanto era lontana nel tempo la loro origine. Le colonne, le statue nelle nicchie, le inferriate alle finestre davano un incubo a sua madre, come veniva la sera, e certe strade erano interamente formate da questi palazzi. Il suo sguardo di giovane sposa avrebbe desiderato abitare in una città nuova in armonia con la sua anima tutta protesa verso l’avvenire.
Ebbe l’occasione di andare per affari in quella città, e subito non ebbe l’impressione che fosse triste; arrivando, vide un vasto giardino pubblico con alti alberi, e poco dopo vide elevarsi rosea nel cielo leggero la cuspide altissima della torre. Gli antichi palazzi nella pienezza del giorno rivelavano la bellezza classica che il Cinquecento aveva rievocato. Fu impegnato nei suoi affari e dimenticò la città, e che sua madre vi aveva abitato quarant’ anni addietro piangendo alla sera di malinconia. Nel pomeriggio non aveva più nulla da fare, il treno sarebbe partito assai tardi, e camminò sotto ai portici osservando i negozi. Uno gli interessò più di tutti gli altri: un negozio di antiquario. In vetrina vi erano alcuni vasi cinesi, ventagli, bicchieri a calice di vetro soffiato, sottobicchieri di ceramica a tinta avorio di Bassano, tabacchiere, un cofanetto di velluto rosso con borchie d’argento, statuette di pastori o di damigelle in crinolina. E nell’interno ad una vaga luce vedeva mobili accatastati e lampadari pendere dal soffitto. Entrò: una signora, la padrona del negozio, gli venne incontro. Aveva un cappellino di velluto, simile ad una scatola rotonda, e una stola di pelliccia sulle spalle; lo accolse premurosa. Il disordine del negozio, la polvere, la luce debolissima di una sola lampadina gli diedero un’angoscia opprimente.
Guardava quelle tavole d’ogni stile, quelle sedie, e nel fondo del negozio letti e armadi e divani e poltrone. Erano stati di moda un tempo, avevano appartenuto a qualcuno, un tempo, a famiglie andate in rovina, disfatte dal tempo. Erano stati svenduti in fretta per racimolare denaro, per pagare debiti, spese di funerale, per procurarsi un biglietto di navigazione per andare oltre Oceano in cerca di una nuova vita. Per interrompere il silenzio chiese il prezzo di una tavola, la padrona non lo sapeva, bisognava attendere che venisse sua sorella. In un angolo vide due colonne di legno dorato con capitelli, e in altra parte un arco pure in legno dorato, domandò se erano decori di un teatro; appartenevano ad una chiesa che era stata distrutta durante l’altra guerra. Vicino vi era una grande mensola stranissima, fatta come per occupare un angolo, verde e dorata con colonnine agli estremi, uno specchio allungato e grifoni allo zoccolo: non avrebbe più potuto essere apprezzata, desiderata, un grottesco ingombrante e inservibile più: morta, decisamente fuori uso. Inventata in un’epoca di benessere, di abbondanza, di sperpero, di gusto farfalleggiante per il salotto di una donna che leggeva la Scena Illustrata, che faceva i bagni al Lido con un costume a sbuffi e con la marinara. Non osò guardarsi in quello specchio, gli sembrava dovervi vedere nella luce trattenuta la tristezza del disfacimento di quel tempo, garante del disfacimento di ogni altro tempo, compreso quello in cui viveva. Ricacciò quel pensiero chiedendo il prezzo di un orologio dorato sotto una campana di vetro, la padrona non lo sapeva, bisognava attendere sua sorella che era andata in un palazzo vicino dove stava trattando l’acquisto di certi mobili. Sapeva il prezzo di una zuppiera del Settecento dipinta a fiori che era andata in pezzi ed era stata raggiustata. Gli fece vedere come le raggiustature, fatte col filo di ferro, si dissimulavano bene confuse coi fiori. Quella zuppiera aveva avuto una vita, la sua vita, ora la polvere nereggiava come una pece tra le commessure. Era andata in pezzi, viveva oltre la sua vita, oltre il suo tempo come uno spettro.
— Vostra sorella non viene più, — le disse. Come per dire che se ne andava.
— È andata qui a due passi, se desiderate vado a chiamarla, o se volete venire anche voi vedrete mobili bellissimi. — Ella si muoveva disinvolta tra quelle sedie, quelle tavole, tra quella polvere, quelle fragili chincaglierie. Come per uscire dall’incubo per tutte quelle cose sopravvissute, accolse l’invito. La sera era sopraggiunta, cupe ombre erano nella strada e si facevano profonde negli atri dei palazzi. Una campana suonava bassa, lugubre, disperata.
«Ecco, questo è il palazzo» disse la signora con indifferente gaiezza sostenuta dalla certezza del buon affare che sua sorella stava combinando. «Perché vendono la mobilia?», le chiese. «Il conte è morto e gli eredi non sanno che farsene dei suoi mobili». Entrarono nell’atrio, da una scala si sentivano delle voci, una lampadina si accese e vide due facchini portare giù con grande fatica un cassettone lucente come un feretro. Non si poteva salire e loro scendevano adagio. Disse che non poteva attendere, avrebbe perduto il suo treno, sarebbe ripassato un altro giorno, e ritornò sulla strada.
La campana suonava ancora, un ponte biancheggiava nelle balaustrate, sotto l’acqua riluceva ferma. Là vicino, quarant’anni addietro abitava sua madre e quando veniva la sera non poteva trattenere le lagrime.
Giovanni Comisso
da il Corriere della Sera del 20/01/1944
Immagine in evidenza: Foto di Jordan Benton