Si ritorna dopo un periodo di tempo che non si sa definire. Tutto quello che si ricorda, avvenne, ma l’aspetto presente delle cose e l’occhio diverso creano il dubbio.
In fianco alla stazione, ecco, lo scalo merci, qui nel maggio del ’15 sbarcammo: uomini e muli ugualmente intontiti dal viaggio. Poi sotto al viale fiorito di tenere foglie il profumo dei campi ci rianimò nella marcia verso la frontiera.
A Udine ritornai per incontrarmi coi miei genitori dopo i primi mesi di guerra, avevo il moschetto a tracolla e settanta caricatori nelle giberne. Nel tram, nei caffè, all’albergo in compagnia dei miei creavo lo stupore in tutti e l’orgoglio in mio padre, perché ero il solo soldato, armato a tal punto.
Udine pure vicina al fronte aveva un aspetto sereno e disarmato.
Nel ‘17 ritornai per frequentare il corso ufficiali. Il nostro accantonamento era nel teatrino del Collegio Arcivescovile. Ho ripercorso le strade piane, larghe ed arcuate, con le case placide al sole, guardando le pietre del marciapiede che calcai con altre scarpe. Una porta, una finestra, un negozio, un portone, ecco l’ingresso. Entro, spio attraverso il cancello, vedo il cortile, gli alberi cresciuti.
Da una finestra una voce di donna mi fa trasalire: «Cerca di qualcuno?». Cercavo me stesso. Era una vecchia, forse ella da quella stessa finestra ci aveva visto allora sfilare ritmici e ardenti. Fuggo verso altre strade.
Qui quando saltò in aria il deposito di munizioni di Sant’Osvaldo, con altri, mettemmo al sicuro le bambine di un collegio, tra il cadere dei fili elettrici e lo scoppiare delle vetrate dei negozi. La vetrata di questo negozio si gonfiò come fosse stata di gomma e si spezzò travolgendo tutte le bottiglie di liquori. La popolazione fuggiva tra il fragore dei 305, la città serena si ridestava in un terrore da finimondo.
Dalla terrazza del nostro accantonamento si vedevano le cassette di bombe a mano, scagliate in aria, esplodere come fuochi d’artificio.
Il giorno dopo ritornò la vita per le strade piane, lungo gli stretti canali, e le voci dolci delle donne nella cadenza friulana risuonarono sulle porte e alle finestre al nostro passare animoso. Sotto ai portici non c’è più un certo negozio di fiori dove vidi fermarsi la Duse, venuta per il Teatro del Fante, era accompagnata da un signore e additando un grande mazzo di garofani d’un rosso nereggiante: «Questi — disse — sono veramente sgargianti». Era vestila di nero e i capelli le biancheggiavano tra i veli. E in piazza un giorno vidi per la prima volta D’Annunzio. Era arrivato in automobile, aveva fatto fermare per far salire una persona a cui tese la mano inguantata di bianco e nel passare dal posto davanti a quello di dietro parve ostentare di non voler mettere i piedi a terra, e giocò di abilità da una pedana all’altra.
All’angolo in via Deciani vi era una piccola bottega di mercerie dove mi feci cucire i primi gradi da ufficiale e poi proseguii a soddisfarmi dei saluti degli inferiori. Non ritornai che dopo Vittorio Veneto, di passaggio, per raggiungere il mio reparto già oltre Trieste.
I prigionieri austriaci spazzavano le strade desolate, gruppi di case erano crollati, il Castello, le Logge e le statue sembravano irreali nel disordine attorno.
La febbre spagnola mi accasciava, cercai di essere accollo in un ospedale, ma vi erano ancora gli austriaci. Ora piazza del Mercato è tutta fiorita di garofani, di astri e di crisantemi che formano provvisorie aiuole attorno alle venditrici sedute che chiacchierano e ridono: gli ombrelloni irradiano una blanda luce sulla frutta, vi sono giovinette gaie, d’una gaiezza come suscitata dal vento delle montagne vicine che s’imprime nelle bionde chiome sconvolte.
Su queste pietre, su questi sassi per giorni di seguito lavorarono i prigionieri foschi e ammuffiti a spazzare tutte le lordure accumulate durante l’invasione.
Le case distrutte sono state rifatte, tutti i negozi sono stati riaperti, le voci sono ritornate: da allora sono passati degli anni o pochi giorni? Il tempo sfugge al controllo, quasi quasi sento più vicino il palazzo che fu abitato da Napoleone prima della battaglia dell’Isonzo fattomi rivivere dalle pagine di Nievo, là dove si narra di Carlino che da Portogruaro si precipita dal generale vittorioso per protestare contro le violenze dei soldati francesi e Napoleone, che sta facendosi radere la barba, scatta compiaciuto per tanta audacia del giovane a proporgli di arruolarsi nell’imminenza della battaglia.
Ci si distrare verso quest’altra storia, quando una grande e lucida insegna sopra un negozio d’angolo ci riafferra alla storia che qui fu vissuta: «Macelleria Reale». Non sorrido all’umana ambizione del bravo macellaio, entro, parlo con lui, mi mostra il suo brevetto, le sue medaglie, egli ricorda ogni avvenimento di allora, le visite importanti, i personaggi illustri attraverso le sue forniture per la mensa del Re.
Il mio tempo vissuto pare realizzarsi al sole, ma non basta. Alla prima ombra sulla strada svanisce. Albergo Croce di Malta, Caffè Dorta, il negozio di giornali sempre lo stesso in piazza, le statue, le Logge, la torre, e su tra il verde il Castello, la dolce cadenza dei saluti friulani, il cielo: ritrovo i miei passi, riconosco me stesso nella recluta, come alla mia venuta dal fronte col moschetto a tracolla e coi settanta caricatori nelle giberne, riconosco me stesso in questi sottotenenti in attesa di partire per l’Africa, come alla mia nomina ad ufficiale prima di partire per la Conca di Plezzo.
E salgo i gradini del colle, qualcosa mi richiama e io non so cosa sia:devo salire, il ciclo meridiano si è improvvisamente riempito d’un sole irruente, le campane suonano alterne, vedo i tetti delle case e sopra, lontano, l’orizzonte aperto della pianura, guardo un attimo i monti ad oriente, poi subito verso l’Isonzo, verso il Carso, verso Cormons, verso Gorizia, nella luce chiara come in un giorno da osservatorio, distinguo, ritrovo Monte Quarin, il colle di Medea, la linea sinuosa da San Michele a Selz, e le montagne di Ternova. S’alzano dalla pianura ingiallita di foglie le cime dove la vita di guerra, giorno per giorno ci diede altro sangue, ogni parte di questa terra è come una parte del nostro corpo, e nella luce chiara ventilata dal mare del grande golfo lutto l’orizzonte si trasmuta come in un chiaro, profondo, inalterabile sguardo, lo sguardo della nostra giovinezza di allora.
Giovanni Comisso
da La Gazzetta del Popolo del 20/11/1935.
Immagine in evidenza: Udine – via Petracco e, sullo sfondo, palazzo Antonini (foto di GiuseppeDio, da Pixabay)