In questa terra variata di acque e di colli, ogni trattoria ha il suo incanto come per riflesso dagli incanti del cielo e del paesaggio.
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Nella trattoria del mio amico Alfredo bisogna andare al mattino per scoprire il suo incanto, quando il cuoco sta in cucina occupato alla preparazione delle vivande per la giornata e canta. Nella successione dei cuochi di quella trattoria, i più duraturi e che vi si sono trovati bene, facendosi onore, sono stati quelli che da giovani hanno lavorato in cucina a bordo di una nave da guerra o da trasporto.
La trattoria è una particolare costruzione: poco dopo l’ingresso si scende di tre gradini per passare in una sala che è sotto al livello stradale, più avanti e ancora più giù vi è la cucina e fuori dalle vetrate si vedono le acque di un canale ora lente, ora scorrenti secondo le piogge nelle campagne attorno. Quei cuochi marinai vi sono stati sempre felici e alla mattina si sentivano cantare le canzoni dei loro vent’anni. L’acqua del canale di fuori e quello stare in un ambiente più basso degli altri e del livello stradale li suggestionavano di trovarsi ancora a bordo della loro nave in attesa di un prossimo approdo, nella sera, in un porto straniero con sorprendenti attese.
Cantavano illusi di essere ancora ventenni e, sicuri di esserlo, nel preparare la colazione per il personale della trattoria, vi mettevano l’estro conviviale, come per i compagni di bordo, con pastasciutte conditissime e grosse polpette incipollate. Cantavano e il mio amico Alfredo li ascoltava sempre sorridente, anche quando tra la posta arrivata trovava i soliti avvisi di conti da pagare. Un solo cuoco non aveva l’abitudine di cantare nella ciurma, al mattino: egli aveva vissuto i suoi vent’anni soltanto in alberghi di montagna.
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La mia amica Nerina ha la sua trattoria in un vecchio vicolo nel centro della città, non tanto lontano dalla piazza, dove zampettano i colombi. Se Giovambattista Tiepolo, non per i suoi angeli precipitanti, ma per i ritratti femminili con l’occhio furbesco e con il rosso vino delle guance tra il pallore lagunare delle tempie e del collo, può essere celebrato con figure viventi, deve esserlo qui. Le sorelle di Nerina, che portano le pietanze alle tavole sono due modelle di Tiepolo. Ma più che la grazia di quella pittura veneziana, hanno quella teatrale della Locandiera e della Serva amorosa. Hanno sempre il sorriso della buona accoglienza quando ci si siede per ordinare e accompagnano l’offerta di una vivanda con commenti incoraggianti, come se l’andare spesso alla loro trattoria convalidasse di appartenere già alla loro famiglia. Le loro premure per evitare le correnti d’aria sono tanto per gli ospiti abituali, che per quelli improvvisi, perché spesso per fare uscire il fumo dalla cucina, lasciano aperte le finestre ed è allora che entrano con breve volo i colombi della piazza. Tutto è mansueto e familiare dalla Nerina, anche i colombi che vengono a zampettare sotto alla tavola e che reclamano le briciole a colpi di becco, dati ripetuti sulle scarpe.
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L’amico Lino che ha la sua trattoria sui colli cerca di imprimere il suo gusto personale all’incanto riflesso dal paesaggio attorno. Nella sua trattoria ha lasciato l’aspetto rustico dei locali. Alcuni sono rimasti quasi gli stessi da quando vi abitavano i contadini. Ha solo aumentato il numero delle secchie di rame pendenti dal soffitto, che fanno pensare ai quadri rilucenti di Jacopo da Ponte. Un locale attiguo, costruito nuovo, rievoca uno di quegli ampi granai contadini per asciugarvi le biade dopo raccolte e per fare tumultuosi banchetti di nozze. Appunto qui abbiamo potuto cenare con amici, perché negli altri locali non vi era posto. Subito mi sono accorto di una strana sorpresa: le cameriere erano tutte contadinelle della campagna attorno ed erano vestite con la camicetta bianca appariscente da un giubbetto con rigonfio alle spalle, di una stoffa variopinta a fiorellini, su fondo verde o rosa. Più che contadinelle della campagna sembravano delle vallate cadorine. Devo dire la verità, per me il folclore è troppo abusato e non mi piace, così si è discusso con Lino se quello era o no un vecchio costume locale.
Stavo seduto a quella tavola volgendo le spalle verso la parte di dove le cameriere venivano a portare le vivande e così potevo solo osservarle alzando e volgendo lo sguardo se mi si facevano di lato per servirmi. Quando questo avveniva devo confessare che provavo una sensazione non più provata da tempo immemorabile.
Erano tutte giovanissime, fresche e maturate per l’amore, avevano un sorriso che risultava ambiguo quando ricevevano le ordinazioni e parlavano della coscia o del petto dell’anatra come se si trattasse dei propri, coperti da quel costume valligiano o contadino. In certi momenti, subdole e ingenue entravano nel salone a gruppo canticchiando come per una danza sceneggiata nel portare calde quelle vivande. Esse stesse belle, piacenti e camuffate con quel vestitino, sentivano il gusto di una mascherata e i loro corpi, che non potevano essere annullati, determinavano, senza saperlo, schemi di una esibizione femminile. Attraenti con il loro corpo senza essere fine a se stesso, solo per portare le pietanze ordinate, riuscivano allarmanti come per un sopraprezzo della cena e a momenti irritavano per la loro lusinga malandrina.
Infine nel voltarmi per vedere quella che mi portava un contorno di funghi, mi accorsi che. era una giovane di così alta statura da apparire una novità assoluta, freschissima con un sorriso convenzionale, limpida d’occhi contadini, seducente e indifferente della sua seduzione, come un aspetto già scontato. Era tropo e non si poteva più rimanere seduti a quella tavola: seduceva per offrire solo quei funghi che riescivano in vero avvelenati.
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Da Nando in una trattoria sul principio delle pendici di un Montello, in una stradina boscosa da cacciatori, da ricercatori; di funghi e di fragole, appena entrati si pensò di dovere ripiegare sulle solite scorte di riserva di salame e formaggio, ma venne promesso un risotto con i funghi e si attese. Eravamo in attesa delle sorprese che non dovevano mancare con quello scenario di bosco attorno che odorava di foglie cadute. Quello che si vide apparire fu tanto meraviglioso che come succede talvolta per i sogni è difficile ricordare al risveglio. D’improvviso la porta si aperse come spinta dal vento ed entrarono due giovani furenti, passarono da Nando, parlarono e discussero animati e con lo stesso slancio si precipitarono per uscire. Parevano due giovani banditi ed essendo in vena fantasiosa di comunicare con loro chiesi se il colpo alla banca fosse riescito. Accettarono l’allusione scherzosa, risposero che il prossimo sarebbe andato meglio e sparirono di fuori nella notte. Il risotto ancora non arrivava e ritornammo in attesa.
Poco dopo la porta venne aperta ancora con violenza ed entro un giovane con cappello di velluto ornato d’una piuma di fagiano, curvo nel portare con le braccia un involto. I miei amici gridarono per la meraviglia, mentre io non avevo capito cosa portasse. Il giovane gettò sul pavimento quella roba, era un capriolo insanguinato ed egli era alto, con mani ossute e bislacche da strangolatore. Nando lo salutò chiamandolo «Angelino» e gli fece grandi accoglienze tralasciando il risotto che era al fuoco. Era un suo amico cacciatore arrivato da una battuta in montagna, nella macchina aveva il resto e quando rientrò, gettò ancora sul pavimento una decina di lepri e di fagiani. Con quelle mani, come fosse un ragazza che componesse un presepio pasquale, dispose scenicamente quegli animali, spezzando a loro le ossa per fare assumere pose vitali. Sulla groppa del capriolo eretto con la testa appollaiò due fagiani con I le ali aperte le lepri parvero dormienti o saltanti. Aveva un profilo modellato dal veto, dalla rapidità del muoversi e dal puntare il fucile che depose tra gli animali uccisi. Il naso era asciutto e diritto sotto alla fronte avventurosa e spavalda, le sopracciglia e gli occhi neri erano tratteggiati, infantilmente curiosi, con pochi tocchi sul pallore rosato.
Ma Angelino non aveva ancora riversato tutta la sua cacciagione: una giovane bionda entrò e mettendogli una mano sulla spalla gli disse che aveva fame: era la sua libera amante. Pareva che tutti i doni della terra gli fossero concessi per diritto come a un feudatario esigente. Nando disse che se avessimo voluto in quei fagiani vi si sarebbero trovati i pallini nella carne non come in quelli di allevamento artificiale che i due giovani erano venuti a offrirgli prima. Angelino si lavava con compiacenza le mani insanguinate e noi eravamo così distratti che si chiese a Nando se avevamo già mangiato il risotto.
Giovanni Comisso
(Il Gazzettino, 8 dicembre 1964)