Questa è una storia estiva, di montagna e lavoro. Una di quelle che mi piacciono, perché aggiunge qualcosa all’immagine della montagna magnifica, rigenerante, avventurosa che un po’ conosciamo: parla del lavoro di persone che hanno nella memoria un certo modo di vivere un luogo, che lo conoscono bene, lo amano e si sentono parte di esso da sempre.
Dieci anni fa l’amico e collega di fabbrica, Pier Giacomo De Cesero, ha avuto un’idea vedendo nel cassone del ferro vecchio, la campanella di bronzo che per tanti anni ha dato il ritmo alle nostre giornate di lavoro a Longarone. Quel suono prolungato di metallo marcava l’inizio della giornata, la pausa caffè, la pausa pranzo o il termine della giornata lavorativa.
“Perché non mettiamo la campana in cima a una delle nostre montagne e ogni tanto andiamo su e la facciamo suonare come segno di benvenuto per chi viene al mondo e come preghiera e ricordo per chi se n’è andato? Potrebbe essere una cosa nostra, piccola, ma con un significato”,
ha detto un giorno Pier Giacomo rigirando tra le mani la campanella dismessa.
Prima l’idea, poi il sostegno dei colleghi di lavoro, quindi lo schizzo, l’acciaio, la lavorazione ed è stata costruita una piccola struttura, con due spioventi, una targa con impressi i simboli del Comune di Longarone, del CAI, del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi e dei Donatori del sangue. In mezzo la nostra campanella. Dopo aver assolto a tutti i permessi il manufatto è stato posto sulla sommità di un monte nei pressi della forcella sud dei Van De Zità a 2.400 metri (Cime Dei Bachet). Da allora quella è diventata la nostra “Cima della Campana”.
In questi anni molti di noi sono passati di là, nei mesi buoni, e tutti hanno fatto risuonare il vecchio metallo, che nel frattempo aveva perso la brillantezza della superficie, ma non quel cuore sonoro e limpido che dalla roccia solida si perdeva nel cielo verso la zona industriale di Longarone, le fabbriche, i monti dell’Alpago, del Cadore, dello Zoldano e della Valbelluna.
Ognuno, in questi anni, ha suonato la campanella con un pensiero proprio, intimo, oppure condiviso con chi era in quel momento al suo fianco.
Dopo dieci anni di vento, sole, neve e gelo è stato necessario salire per fare la manutenzione della struttura e renderla ancora solida alla roccia. C’erano attrezzi, materiali e per portarli su a 2.400 metri servivano braccia e gambe buone e un po’ di mestiere: era un vero lavoro da operai. Quindi una domenica siamo partiti prima dell’alba, ognuno dalla propria casa, abbiamo attraversato la zona industriale, le fabbriche chiuse per la fermata d’agosto e ci siamo diretti a Soffranco. Da lì, ottimizzando i mezzi, abbiamo proseguito per Forno di Zoldo iniziando a salire sul serio. Da malga Pramper, a 1540, abbiamo preso il sentiero per Rifugio Sommariva al Pramperet a quota 1857. E poi su ancora fino al Piazedel e quindi ai Van De Zità, a 2400 metri.
Poco oltre, la nostra “Cima della Campana”, nel Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi: un monte con un versante docile, prima erboso e poi di roccia, e un versante a picco su un panorama mozzafiato, 360 gradi di montagne, valli, ghiaioni, rocce, camosci, pernici bianche e cielo a non finire.
Il lavoro di consolidamento è stato facile, molti di noi fanno i manutentori da quando erano ragazzi e con il materiale e l’attrezzatura giusta è stato un lavoro piacevole e di grande soddisfazione. Poi due parole, qualcuno ha suonato la campana, nominando i colleghi e le colleghe che non sono più tra noi e i figli nati.
Non sono servite tantissime parole, perché ci conosciamo bene, sappiamo le nostre debolezze, le tensioni nel luogo di lavoro, ma anche quella riserva extra di amicizia che ha le radici decennali di chi condivide ogni giorno il lavoro di fabbrica.
Poi siamo scesi al Rifugio Pian De Fontana a 1635 metri e quindi giù ancora fino ad arrivare in Val Del Grisol, dove il fresco dell’ombra e lo scroscio dell’acqua fredda ci attendevano. Ognuno con i tempi propri, senza sfide o rischi inutili. E ho visto all’opera la selezione naturale delle nostre età: davanti, quasi saltellando, i trentenni, quindi i solidi quarantenni, poi i cinquantenni e infine gli ultra sessantenni, che sanno dosare al meglio le loro forze e ammirare ciò che li circonda.
Io, camminando, ho ascoltato e raccolto storie. E a ogni passo vedevo, accanto alla bellezza della natura, il lavoro degli uomini: nel sentiero, nella palizzata, nel ponte, nelle pietre posate a gradino; e poi la via segnata e i rifugi come case e ripari sicuri per tutti coloro che percorrono le montagne.
E ancora di più ho saputo del lavoro degli uomini, delle donne e dei ragazzi nei boschi, all’alpeggio e in malga nei tempi poveri del passato. Mesi con le vacche, le manze, le capre e vedevo in quella montagna che ci circondava la bellezza, ma ancor di più la fatica, le vite, la Storia.
Tra le tante vicende che ho imparato,due non le potrò mai scordare. La prima è quella di un malgaro e delle sue bestie: in un difficile passaggio su uno strapiombo, l’uomo era solito stare all’esterno, esposto, a spingere con la spalla le manze verso la roccia, perché non vedessero il vuoto del precipizio, o peggio, cadessero di sotto. La seconda è più recente: negli anni ’90, quando è stata avviata la ristrutturazione del Rifugio Pian De Fontana, c’era una teleferica che portava in quota i materiali e gli operai perché l’altra possibilità era salire per due ore e mezza a piedi. Tra gli uomini di questa impresa edile ce n’era uno che soffriva di vertigini e non poteva proprio salire su quel cassone aperto e appeso a un cavo d’acciaio nel vuoto. E allora tutte le mattine i suoi colleghi operai facevano così: lo mettevano al centro del trabiccolo, lo bendavano e lo tenevano stretto in mezzo a loro, bloccato tra braccia e gambe nello spazio angusto della cassa di metallo. Lo liberavano solo quando erano arrivati in cima, scesi a terra e pronti per la giornata lavorativa.
Ho pensato, tornando a casa sfinito dalla fatica della camminata: chi non vorrebbe, quella volta nella vita in cui c’è davvero bisogno, avere l’abbraccio fermo e deciso dei compagni di lavoro?
L’articolo è stato pubblicato sulla rivista del CAI Le Dolomiti Bellunesi – Natale 2017 – anno 38 n.79
foto Paolo Del Longo
http://www.ledolomitibellunesi.it/
ANTONIO G. BORTOLUZZI è nato nel 1965 in Alpago, Belluno, dove tutt’ora vive. Ha pubblicato nel 2015 il romanzo Paesi alti (Ed. Biblioteca dell’Immagine) con cui ha vinto nel 2017 il Premio Gambrinus – Giuseppe Mazzotti XXXV edizione nella sezione Montagna, cultura e civiltà. Con lo stesso romanzo è stato finalista al Premio della Montagna Cortina d’Ampezzo 2016 e alla XIII edizione del premio letterario del CAI Leggimontagna 2015. Nel 2013 ha pubblicato il romanzo Vita e morte della montagna vincitore del premio Dolomiti Awards 2016 Miglior libro sulla montagna del Belluno Film Festival. Nel 2010 ha pubblicato il romanzo per racconti Cronache dalla valle (Ed. Biblioteca dell’Immagine). Finalista e quindi segnalato dalla giuria del Premio Italo Calvino nelle edizioni XXI e XXIII è membro accademico del GISM (Gruppo Italiano Scrittori di Montagna).