Mi sto accorgendo che non vi è terra più bella della trevigiana. Talvolta chiamo a testimoniare amici di regioni lontane e voglio sapere se la mia ammirazione dipende da ragioni affettive, ma essi mi riconfermano nell’entusiasmo. Non solo la bellezza e la varietà del paesaggio, sebbene sia escluso dal mare, ma la gente e le vicende storiche danno splendore.
Da Treviso, appena passato il Piave, il ponte della Priula, una strada svolta a sinistra. Da poco questa strada, per iniziativa del Sindaco di Pieve di Soligo, è stata resa percorribile con ampia visibilità di quell’ansa del Piave, dove nel giugno del 1918 gli Austriaci tentarono di rompere il nostro fronte e ne furono ricacciati. Fino a qualche tempo addietro si doveva rinunciare a questo itinerario, con mezzi automobilistici, perché la strada era nelle stesse condizioni di dopo la battaglia, Da una parte i ghiaioni del Piave si stendono come un biancheggiante lago e dalla altra i colli si susseguono ricoperti di vigneti e di boschi. Un torrente placido e chiaro forma la valle scorrendo tra tenui boschi di acacie, ed intona il carattere di questa gente.
In tempi in cui molta gioventù folle e strana pencola tra il delitto e la vanità, qui invece sta ancora intatta come ultima riserva di un seme d’ordine e di saggezza. E’ qualcosa di simile a quei ghiacciai che ancora resistono tra alte rocce al sopraggiunto divampare delle estati. La gioia per gli inattesi incontri e la felice speranza che danno per il ricrearsi di una società concreta di opere armoniose, sono nello stesso tempo accompagnati dalla curiosità di spiegarci la ragione del sorgere in questa terra di esseri misurati e laboriosi.
Questi giovani vivono in una segreta gara tra loro per compiere nel gusto artigiano opere varie e perfette. Taluni, dopo aver faticato tutta la giornata in un lavoro estraneo, quando viene la sera si isolano nella propria casa e col senso del religioso che si mette in preghiera, si liberano per un lavoro di propria ispirazione. Vi è chi costruisce scrigni ad intarsio, chi va nell’officina del padre, che fa il fabbro, e si diletta a battere fregi su piatti di ferro. Altri lavorano la pietra o scolpiscono il legno. Molti altri, nell’ambito della bottega dove il padre è il maestro, stanno in pacato accordo coi fratelli a costruirei mobilia o seggiole di vimini. Tutta la valle e un silenzioso cantiere, silenzioso comeil torrente, ed ha tradizioni lontane. Una scuola più che centenaria insegna ai giovanetti il disegno nelle ore serali. Non emigra questa gente, ma emigrano le loro opere. Sono attaccati a questa valle, che è come lo stimolo al loro armonioso lavoro.
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Non tocca facilmente trovare una valle più bella, quando da Pieve di Soligo risale verso Follina, fino alle Alpi. Una notizia vaga dice che Giovanni Bellini sia nativo di questa valle, che indubbiamente risulta ritratta più volte nei suoi paesaggi. Sono questi i colli da lui dipinti con alberi selvaggi alternati a rocce affioranti come le ossa da un magro costato, e lontano sfumano cinerei verso il lago di Revine con castelli biancheggianti sulle cime. Tra i colli serpeggiano le strade, mentre i contadini falciano i prati e una voce viene da una casa sul pendio riecheggiata sonora. Passano per la strada carri colmi di fieno. Vi si vive, quando la luce irradia dal sole estivo tanto alto che sembra escluso dal cielo, come nei suoi paesaggi. Ma di certo Zuccarelli, l’ultimo dei paesaggisti veneti, era di Follina. Dolce terra che incantava i pittori come una donna.
Era Venezia come la città per eccellenza al confronto della terraferma; era come una personificazione assoluta dell’uomo e tutto il resto, terra e mare, erano a suo ornamento, li suo utile servizio. Diede Venezia parte di queste terre in feudo ai suoi capitani vincitori, al Colleonì, al Gattamelata, al Brandolini. E sono ancora intatti i castelli sull’erto dei colli dai quali si spia il traffico delle strade e il mutevole lavoro dei campi. Quello dei Brandolini fa quasi pensare alla rocca di Erode, fantasticata da Flaubert, vicino al Mar Morto su un picco di basalto.
Dalle Alpi arse di sole si stacca un promontorio digradante verso la breve piana di Valmareno e sull’ultima vetta sta come un diamante il bianco castello. Anche in questa rocca, nel sotterraneo, vi sono le scuderie, ma non scalpitano gli stipati cavalli del Tetrarca. Queste scuderie sono deserte, nitide negli ottoni ornamentali e ogni stallo porta ancora il nome dell’ultimo cavallo che ne fu ospite. I terrazzi fioriti e tintinnanti d’acque sembrano nascondere la botola dove sia rinchiuso Giovanni Battista, cedri centenari ombreggiano profumando al sole. Se dopo avere sostato nell’interno si dischiude una finestra, subito si intende dalla pianura profonda sommersa nella luce non le grida profetiche de Battista, ma il canto dei contadini che raccolgono il fieno.
E’ una valle armoniosa; i vini, il burro, il miele, la cacciagione, i funghi allietano la vita, quanto il paesaggio. A settentrione si alza immediato lo spalto delle Alpi come uno schienale, ed è peri questa gente come un considerarsi seduta. Le colline digradano con altre valli interposte, altrove si stendono invece brevi pianure, Non si riceve da questa terra senso d’impazienza per uscirne verso i miraggi offerti lontano. Il miraggio è in essa, quasi un incantamento per il quale non si vuole sapere di attrattive altrove, ci si compiace di non partire più, prende il gusto stesso della clausura sostenuta dalla fede. E tutta la terra è un convento di gente pacata, laboriosa, Industriosa e serena,
Hanno fatto, questi artigiani, una loro mostra dove si espone tutto quello che si può fare con mani ingegnose guidate dalla fantasia. Ogni oggetto ha l’impronta dell’uomo, un’impronta stimolata dalla gara, per segnalarsi. Una tavola, una sedia, uno scrigno, una chitarra, un carro agricolo sono sempre considerati come un’aspirazione ad un’opera d’arte, e in un fregio o in un ornamento quasi che l’artigiano autore avesse voluto imprimere la propria firma, è espresso sempre un accenno a un canto poetico ispirato dal variare del paesaggio.
Preziosa terra che rimane e con la sua gente operosa a dare ancor a la speranza nella vita che non tutto sia stravolto travolto dalla macchina e dal numero umano stratificato. Qui ancora i contadini cantano in accordo ai loro lavori.
Giovanni Comisso
Il Gazzettino 1949