Alla terza prova narrativa, dopo “Alligatori al Parini” (Mondadori, 2008) e “La formula chimica del dolore” (Mondadori, 2010), Giacomo Cardaci approda a una storia delle più magnetiche e commoventi che vede come protagonista Cesare, un ragazzino che ama spazzolare Barbie Raperonzolo, che sogna di aprire un salone di bellezza e lavorarvi come parrucchiere, che sperimenta la femminilità indossando un assorbente improvvisato. Ma soprattutto, un ragazzino dal destino ingombrante, segnato dall’indifferenza e dall’abbandono, dalle violenze verbali, dalla tirannia della solitudine e del rifiuto, dal sabotaggio della sua identità sessuale da parte del padre e di una schiera adulta collaborazionista e corrotta. Come in un copione già scritto, Cesare adolescente non commette ma diventa lui stesso un ‘errore’, l’eccesso scabroso di un incipit che già da lontano prepara il suo epilogo e che è sempre stato lì, dentro il disprezzo in cui è cresciuto.
“Ogni crimine è invece una vicenda con radici lunghissime, pelose, intricate, affossata in un passato lontano in apparenza irrilevante. Sono convinto che il primo germe che ha avvelenato la mia vita si sia insinuato dentro di me durante quel giorno di prima elementare quando provai la sensazione di essere sbagliato. Lurido davanti alla suora e mio fratello e a quel pubblico di bambini che, ne ero certo, iniziavano anche loro a pensare che io fossi sbagliato e lurido”.
Quando la famiglia decide di trasferirsi nella periferia di Milano, incubatrice di nuovi disagi, il personaggio subisce l’inevitabile tracollo: se fino a quel momento, vivere ha significato opporre una sorda resistenza, qui, dove tutto diventa lecito, vivere vuol dire soprattutto somigliare al modo di stare al mondo di Gabbo (di cui addirittura ripete le battute), e amalgamarsi a quel luogo di scarto in cui la rabbia e l’odio vigono come norme capillari.
“Ci deve essere stato un momento in cui per scansare gli attacchi, le sevizie verbali, le umiliazioni io ho abbandonato me stesso (…): quello che si ribellava a suor Dolores, alle Barbie gettate nella spazzatura, ai ragazzini schiaccia chiocciole; un momento, cioè, in cui ho finito di essere proprio io e ho cominciato a essere un altro, l’unico che potevo essere, l’unico da cui potevo trarre esempio: uno come mio padre. (…) Essere diverso da lui, forse, a un certo punto è diventato troppo faticoso”.
Lungo un percorso accidentato verso un indisciplinamento adulto che si compie con la tensione di un dramma psicologico, nei sottoscala dell’emarginazione urbana, Cesare conosce il sesso, la mercificazione dei sentimenti, la prostituzione, e per finire il crimine che lo porterà al suo atto finale. In questo senso, “Zucchero e Catrame” è davvero un romanzo del di-venire, ovvero un Entwicklungsroman nell’accezione estensiva che non è da intendersi esclusivamente di formazione, piuttosto, di elaborazione di un’esperienza che porta con sé le predisposizioni volte a maturare dal contatto con la realtà esterna.
L’essenza di questa “raffinazione” che induce il personaggio a slittamenti identitari è racchiusa in due macro parti narrative e psicologiche, un dittico che a mio avviso gioca con il senso dolce – amaro del titolo: la prima, in cui Cesare è alla ricerca della propria identità sessuale e affettiva, e in cui commuove per il candore e la fedeltà con cui prova a difendersi dal pregiudizio e dall’omofobia; la seconda, in cui si compie il sacrificio umano, sospinto dall’invenzione di realtà parallele e affettive che surrogano il vuoto in cui viene lasciato, e che si fanno necessarie per districarsi negli ingranaggi relazionali dell’adolescenza.
In mezzo, in quella zona buia che c’è ma non si vede, l’autore lascia che si depositano le logiche e dilemmi che montano intorno al romanzo: che l’amore si insegna prima di tutto; che la responsabilità di un’infelicità impedita, di un dolore inflitto, di una precarizzazione affettiva, è una questione che si costruisce da molto lontano, dentro le relazioni quotidiane; che una manipolazione deformante assieme a una continua provocatoria crudeltà creano tanti Gabbo e tanti Cesare…
Con una voce pacata ed elegante, Giacomo Cardaci ha dato forma scritta al pianto soffocato di chi si trova in trappola tra la incapacità di urlare l’odio e la rabbia, e l’impossibilità di chiedere aiuto e amore.
Paola Milicia
L’intervista
Partiamo dalla genesi del romanzo che appare dopo un lungo silenzio. Come ti sei preparato alla stesura di “Zucchero e Catrame” e cosa ti ha insegnato l’esperienza di Cesare?
Molti scrittori parlano del processo creativo come di un “concepimento”: al pari dei bambini, ancor prima di essere “fatti” ossia “scritti”, i libri vanno “concepiti” ossia “pensati”. Per scrivere il romanzo ho preso appunti, preso note sul cellulare e, mentre lo facevo, rischiato di farmi investire e di cadere da diverse montagne intorno a Bormio. I personaggi si sono fatti sempre più nitidi, la storia sempre più chiara: solo allora ho iniziato a scrivere. L’idea per la trama principale mi è venuta quando ero all’università, sono stato catturato da un fascicolo su un giro di prostituzione minorile della periferia di Milano, su ragazzini bellissimi, etero, che venivano descritti nei verbali di polizia o di intercettazione come “prede” che poi si trasformavano in “predatori”, “adescati” che divenivano “adescatori”: questa metamorfosi, i loro dialoghi, la loro doppia vita, mi aveva ipnotizzato. In tutte le storie che ci rimangono impresse, che ri-raccontiamo, c’è qualcosa che ci riguarda. Anche se sono storie apparentemente distanti dalla nostra: lo dice molto bene Nicola Lagioia nel suo capolavoro “La città dei vivi”.
Il vissuto esistenziale di Cesare lo spinge a una riconfigurazione della propria identità che passa per la mimetizzazione con Gabbo. Tra l’altro, prendersi gabbo di qualcuno o qualcosa, significa fregarsene, prendere alla leggera le cose, e Gabbo lo fa con coerenza maniacale, quando “risponde pugno al pugno, manda a fanculo i passanti”, è capace di urlare l’odio per i genitori, che per Cesare sono anzitutto virtù e abilità essenziali con cui sopravvivere. Cosa li unisce? Cosa prova Gabbo per Cesare?
Cesare non vorrebbe soltanto avere Gabbo: il suo corpo, le sue ascelle, i suoi capelli, i suoi muscoli, il suo cazzo. Ma vorrebbe essere come lui. Assorbirlo. Aspirare la sua identità. Spesso ci succede quando siamo innamorati. E spesso succede alle identità fragili, a coloro che si sentono sbagliati: copiare gli altri, inghiottirli, risputarli fuori attraverso i propri gesti uguali ai loro gesti, i propri pensieri uguali ai loro pensieri. Ma tutto questo è profondamente sbagliato: bisogna invece auto individuarsi, emanciparsi dai modelli altrui, avere il coraggio di essere sé stessi, anche a rischio – un rischio che talora è solo una paura, che non ha nulla di concreto – di essere abbandonati.
Non mi pare ci sia un lieto fine né che i personaggi buoni riescano a vincere sui cattivi. Aleggia, piuttosto, la necessità di rassicurare il lettore che dopo un crimine c’è la giusta punizione, di imporre in linea di principio la certezza che il bene e il male hanno sempre la giusta ricompensa o la condanna finali. Definiresti il tuo romanzo un morality play o ci sono ragioni esogene che hanno agito in nome della ‘prudenza’ e del fair play?
Ho sempre detestato il dibattito o i commenti, anche al cinema, sui lieti fine, sulla necessità di dare alle storie finali consolatori, rassicuranti. Le storie devono essere realistiche e la realtà, a volte, finisce molto male. Alcuni, leggendo il libro, ne sono usciti come se avessero subito un pugno nello stomaco: era quello che volevo fare. Non essere prudente, seduttivo nei confronti del lettore. Ma tirargli quel pugno: nessun desiderio di essere “morale”, le storie edificanti le lascio agli scrittori per bambini.
Descrivi la famiglia come una struttura in crisi a cui contrapponi l’amorevolezza estranea di Giovanna (la vicina di casa). Spesso ci si imbatte nell’indecenza della genitorialità biologica che l’educazione cristiana e l’ignoranza stentano ancora a ‘difendere’. Questa visione che racconti è anche un modo per ridiscutere dei diritti alla famiglia e alla filiazione in coppie omosessuali? Quanto di questa urgenza filtra nelle tue storie?
La famiglia è un microcosmo dove spesso si agitano pulsioni animalesche e inconsce come invidie, ricerca dell’esclusività o visibilità, rancori, risentimenti, ma anche amore disinteressato, tenerezza, solidarietà. Io volevo raccontare la complessità dei sentimenti famigliari in cui navighiamo da quando nasciamo e che ci stravolgono nel corso dell’adolescenza. Non c’era, a dire il vero, niente di politico nella narrazione, non ho mai pensato ad una critica alla “famiglia tradizionale” in senso militante.
Viviamo un tempo in cui ci sottoponiamo a dei lifting emotivi per rimuovere le parti difettanti e riconsegnare al mondo un’immagine di noi patinata, perfetta e durabile. La bruttezza, gli handicap, la diversità, lo stesso dolore e la sofferenza, subiscono una specie di pregiudizio letterario-mediatico. Anche la letteratura mi sembra di parte (pensiamo alla Up–lit, la narrativa dopante dell’ ‘andrà tutto bene’). Qual è secondo la tua esperienza di scrittore (e di chi si batte contro l’omotransfobia) la responsabilità dell’editoria italiana verso certi tabù e vuoti letterari?
Mentre scrivevo questo libro, ho pensato che l’editore ideale sarebbe stato Fandango, che pubblica storie crude, di emarginazione, di ferocia: la mia editor, Lavinia, mi ha detto di far “esplodere” le parti più destabilizzanti. Mondadori, cui avevo comunque dato il manoscritto e con cui avevo pubblicato i miei precedenti romanzi, mi aveva chiesto di eliminare le parti più dolorose e cupe, di stralciare la parte con il vecchio sporcaccione: non conosco bene queste dinamiche, non so se l’editoria odierna tenda a propinare ai suoi “clienti” storie alla “andrà tutto bene”, perché non leggo questo genere di storie che, lo riconosco, possono trovare il loro mercato, e non credo ci sia niente di male. Io però leggo per esplorarmi, per indagarmi, per scoprire aspetti scomodi e brutali di me, per incupirmi.
Rimaniamo ancora su considerazioni astratte, stavolta su una questione formale della letteratura LGBT. Da un lato, si identifica frettolosamente con l’orientamento sessuale dell’autore che appone una specie di marchio di genere; dall’altro, ribadendo una presunta universalità di genere, dovrebbe negare per coerenza la pertinenza di questioni private come la preferenze sessuali dell’autore o la rappresentazione della stessa sessualità all’interno delle sue opere. In tutto questo, non pensi che si stia equivocando il fenomeno letterario e che si stia trasformando in un prodotto di se stesso, un’etichetta, la sublimazione di un genere da cui è difficile liberarsi?
Non è l’autore che impone un marchio di genere al libro: è il libro che appartiene a determinati genere. Le categorie sono sempre riduttive: questo libro, se vogliamo utilizzare dei “tag”, potrebbe essere inserito in “letteratura dal carcere”, “storie famigliari”, “periferia e degrado della città”, “romanzi di formazione”, etc. Tra queste anche “romanzi LGBT”: le categorie non definiscono il romanzo e una sola categoria non vale ad assorbire tutte le altre. Ma, confesso, a differenza di altri giovani autori, io ritengo sia molto “preziosa” la categoria “LGBT”. Credo che sia giusto tenere ferma la barra su ciò che siamo: essere gay, trans o queer, oggi, è un tratto differenziale che segna la storia di ciascuno di noi, non possiamo fingere che ormai sia un dato irrilevante, che non segni nel profondo la nostra biografia, il nostro sguardo su noi stessi e sul mondo: per questo non condivido le affermazioni sul tema di persone famose come Mahmood, che pure ammiro moltissimo. Questo sguardo, in alcuni libri, è fondamentale. Quanto all’omosessualità dell’autore, mi limito a dire questo: credo che pochi autori etero abbiano provato a narrare storie d’amore tra uomini o donne, mentre è frequente l’inverso.
“Zucchero e catrame”
di Giacomo Cardaci (Autore)
Editore : Fandango Libri (28 febbraio 2019)
Lingua: : Italiano
Copertina flessibile : 282 pagine
ISBN-10 : 8860445949
ISBN-13 : 978-8860445940
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