Francesca Diotallevi, Dai tuoi occhi solamente (Vicenza, Neri Pozza, 2018)
Vivian Maier (1926-2009), la tata-fotografa, per tutta la sua vita è vissuta all’ombra del suo lavoro di bambinaia. Con al collo la sua inseparabile Rolleiflex, usciva a piedi o in bicicletta, portava a spasso i bambini, ma nessuno dei suoi conoscenti o datori di lavoro sapeva le ragioni e la profondità di questa passione, vista piuttosto come una tollerabile ossessione. La naturale riservatezza di Maier, fino al punto di usare false generalità, è rimasta impenetrabile e la sua invisibilità violata solo per caso alla fine della sua vita, senza però scalfirla in alcun modo. Mentre trascorreva gli ultimi anni in povertà seduta su una panchina a guardare l’orizzonte o a rovistare nella spazzatura dimentica oramai di tutto, in un’asta a Chicago un giovane, John Maloof, acquistava il contenuto di un deposito per qualche centinaio di dollari, scopriva dentro scatoloni il lavoro di Maier e cominciava a pubblicarlo. Così è diventata famosa senza mai saperlo.
Dagli anni Cinquanta agli Ottanta Vivian Maier ha scattato migliaia di fotografie, ne ha stampate pochissime, sviluppato negativi ma soprattutto lasciato una montagna di rullini ancora intonsi, video e diapositive. Un patrimonio vasto che rimanda alla street photography e ritrae New York e Chicago, periferie povere e momenti glamour, alcuni viaggi nel mondo, paesaggi del paesino d’origine della madre nelle Alpi provenzali.
Francesca Diotallevi nel suo romanzo Dai tuoi occhi solamente (Neri Pozza, 2018) indaga dentro la sua arte e il suo segreto, li scruta con delicatezza e li interroga con affetto. La fotografia consentiva a Vivian di raccontarsi non con le parole, di scavare nelle sue ferite, di dare un volto a un dolore chiuso, cupo, antico, fatto di abbandoni e di tradimenti che erano stati la costante della storia matrilineare della sua famiglia. Donne che erano state abbandonate e che abbandonavano i loro figli.
Per questo si prendeva cura dei figli degli altri, per difenderli nell’età più fragile, quella in cui nessuno aveva difeso lei. Si era rifugiata nel mestiere di bambinaia che le consentiva di accudire e di riscattare la sua vicenda infantile, e insieme di avere molta libertà di movimento e di osservazione.
Così le persone e le cose che le passavano accanto potevano rimanere impigliate nei suoi scatti, studiati e precisi, scientifici. Una entomologa della realtà che impaginava storie dentro il teatro delle sue immagini con sicura perizia.Scrivere con la luce. Salvare la realtà dal caos e metterla in ordine per il tempo di una visione.Scansionare quella realtà imprendibile e ostile sulla pellicola donandogli ragione e sentimento. Fermare il tempo e imprigionarlo in una successione di momenti destinati a durare per sempre. Lasciare un segno indelebile ma privato della propria esistenza.
Incapace di vivere secondo le consuete coordinate, Vivian trovava conforto nella fuga, nella solitudine e nelle stanze che abitava stipate all’inverosimile di giornali e scatoloni, protette da serrature o divieti invalicabili. Il dolore doveva rimanerne fuori, i demoni tenuti a bada. Si costruiva dei fortini di carta e di memorie, labirinti fragili e impossibili.Per non essere toccata, per non essere ferita di nuovo, la distanza che la fotografia le offriva e gli specchi attraverso cui si ritraeva fornivano una protezione a tratti bastevole.
Tra i numerosi e bellissimi autoritratti, alcuni sono fatti giocando con la sua ombra. Un’ombra a volte incombente, paurosa, un passato che non passa – l’ombra feroce della madre – e che riemerge come un incubo da cui non è possibile difendersi.
Vivian era una di quelle persone che creano perché creare è l’unico modo di vivere che hanno trovato, l’unica forma di resistenza all’offesa e alla follia.
Era stata l’amica fotografa Jeanne Bertrand a indicarle la strada: “Guarda le cose che vedono tutti, ma guardale in modo diverso da come le vedono gli altri”.Imparare a vedere quello che è sotto gli occhi di tutti ma che nessuno vede. Raccogliere storie e conservarle, non buttare via nulla.
Ma perché poi alimentare una miniera di fotografie senza quasi stamparle, vederle, senza condividerle, mostrarle?
“Se la stampa era l’atto finale del processo creativo, il parto, quello che lei rifiutava, in fondo, era l’idea di essere madre. Concepiva figli che non voleva partorire, per non lasciarli al mondo. No, le sue creature non sarebbero andate incontro a giudizi e abbandoni; le avrebbe conservate gelosamente, le avrebbe tenute al sicuro da sguardi indiscreti, da mani sconosciute.”
Credo che la bellezza e il coinvolgimento emotivo che questo testo suscita dentro il lettore derivino proprio dal denudarsi di Vivian, e dell’autrice che la racconta, davanti a una ferita immedicabile il cui dolore trova tregua nel gesto misericordioso e assoluto della poesia, sia essa fatta di immagini rimaste nel silenzio o di parole che le restituiscono voce: “Dai tuoi occhi solamente / emana la luce che guida / i tuoi passi” P. Salinas.
Uscito in forma ridotta sull’”Indice on line” di agosto.