Certamente la bicicletta è la più poetica invenzione meccanica fatta da cento anni a oggi. Me ne sono convinto l’altro giorno, quando, col primo apparire delia bella stagione, ho preso la mia vecchia bicicletta per fare un giro lungo i viali che attorniano la mia città. La dolcezza dell’aria di prima mattina, la trasparenza verde delle frondi, l’inebriante senso di muoversi nello spazio, un vero senso poetico di volo, non potevano essere goduti con maggiore immediatezza, facendo credere a un connubio tra corpo umano e macchina, come nelle ricerche di Leonardo.
Si finiva coll’essere presi da un orgoglio per una tramutazione mitica credendo di avere le alette ai piedi e alla testa, come Mercurio, la fuggente divinità degli antichi. Ma ancora di più era dolce constatare, dopo tanti mezzi di trasporto che avevo usati, che la mia vecchia bicicletta era la più pratica per andare dovunque. Percorsi difatti certi viottoli di campagna dove non andavo da anni e rividi, rinverdendo i ricordi, certe acque chiare e correnti che pensavo fossero scomparse dalla terra. Fu allora che con questi ricordi mi disposi tutto sentimentalmente per questa macchina che cominciavo solo a considerare come ferro vecchio destinato al cenciaiolo.
Rividi nella memoria tutte le biciclette che erano state mie, quasi commovendomi, come per donne amate e non riviste più. Ah, la mia prima bicicletta, lucente e scorrevole, promessa da mio padre, non data per una mia disubbidienza e poi in fine concessa, che tanto mi infuriò da rompere un piatto di vetro che mi tagliò alla mano, e ancora ne serbo la cicatrice! Avessi a loro dato un nome, potrei elencarle tutte e tutte abbracciarle nell’evocazione. Ma questo mio slancio, reso più pacato, mi fece anche considerare che le biciclette sono ormai nella vita del genere umano, come qualcosa di sorpassato che tuttavia rimane in una fase romantica. E’ incredibile che oggi in cui si vola superando la velocità del suono, vi siano ancora queste semplici macchine che risultano primordiali, e che ancora si facciano delle gare e delle corse dove è in giuoco solo la partecipazione della forza muscolare in rapporto a una costruzione meccanica.
Una corsa di biciclette sta quasi alla pari con una corsa di cavalli, altri superstiti nella nostra epoca infrenabile. Per questo quando mi si offerse di seguire una tappa del Giro d’Italia, non indugiai ad accettare accorrendo subito come a una celebrazione in onore di qualcosa che mi era stata tanto cara nella vita e che potesse riportarmi indietro nel tempo.
Il convegno era in quella solitaria Merano, dove i vecchi generali tedeschi vengono ad ammorbidirsi gli acciacchi presi in guerra e dove le più decrepite donne di ogni parte del mondo si dischiudono in vesti da giovanette e si acconciano i capelli ritinti alla foggia dei paggi medioevali. I campioni del Giro d’Italia, dopo avere serpeggiato instancabili per tutta la Penisola, erano venuti a inserirsi nella vita tranquilla di questo luogo di cura ancora profumato dai fiori dei meli. Nei grandi alberghi silenziosi si erano sparpagliate le varie squadre di diverse nazionalità, indossando con rude eleganza i maglioni variopinti. Sotto ai grandi quadri cari agli arciduchi austriaci, raffiguranti tra cupi boschi di abeti, erti castelli illuminati dalla luna, ogni squadra stava raccolta alla tavola comune, dopo avere superato lo Stelvio, che aveva ravvivato un appetito formidabile.
Le camerierette giravano attorno offrendo in ampi vassoi bistecche al sangue, circondate, quasi per ammonire che si era alle ardue prove delle Alpi, da evoluti e piramidali contorni di patate spremute. Queste squadre raccolte a tavola, tutti chini sul piatto in un accordato appetito, come ancora sul manubrio, facevano pensare a collegiali in gita turistica. Vi era difatti a capo della tavola il loro precettore dai capelli biancheggianti, che subito dopo cena li sollecitò ad andare a dormire, perché la tappa seguente sarebbe stata decisiva, con un valico dietro l’altro, senza tregua.
Ma come avrebbero potuto dormire subito i giovani campioni in quegli alberghi, dove le stanze sono belle e imbottite come bomboniere. Merano è un luogo di risanamento per vecchi clienti sul limite estremo della vita ed è quindi ampiamente doveroso che siano serviti da un personale che della vita porti ancora tutto lo splendore per ridare un’illusoria speranza. Non è quindi come nelle altre città che rigorosamente vi si trova un personale servente anziano e non tentatore. Ogni volta che questi campioni suonano per richiedere qualcosa, avviene che, come a una sfilata di modelli, si presenti alla porta un tipo diverso dall’altro di giovanissime cameriere sorridenti. Non era stata poi tanto tranquilla la sera col frastuono delle canzoni diffuse all’aperto in loro onore e coi richiami suonanti della fiera che li segue a ogni tappa. Ma il mormorio delle acque del torrente Passirio, che attraversa la città, largo e rimbalzante tra le rocce e i sassi, ha finito coll’indurli a un senno sereno.
Il risveglio è stato desolante nel grigio di nuvole basse che si frastagliavano come capelli al vento per sciogliersi in una pioggia continua. Arrivarono le squadre al luogo del convegno per la partenza ancora trasognate, ognuno avvolto in una bianca mantelletta di tela cerata trasparente sotto alla quale risultavano i colori variati dei maglioni, come orchidee preziose.
Odoravano di olio di oliva e di canfora, unti alle gambe diventate lucenti come coperte da schinieri d’acciaio. Quando uno disse: «Questa è la squadra degli olandesi», immediata si ebbe l’impressione fossero delle sardine sott’olio, tanto parvero preservati dal disfacimento. Con un passo leggero portando al fianco le loro biciclette sollevate, come fossero loro spadine, entrarono nel salone per andare a sedersi a un grande tavolo e si composero nel gruppo, come in quadro fiammingo. Biondi, giovanili, attoniti, senza parlare tra loro, ognuno assunse una posa di stasi. Portavano in loro stessi il marchio eterno della loro nordica terra e dell’arte che lo aveva affermato.
Poco dopo sopraggiunse una altra squadra, quella degli spagnoli, con snelle gambe, modellate più che dalla bicicletta, dal ritmo dei loro avi toreadori o danzatori di flamenco. A vedere quelle gambe si pensava che da un momento all’altro dovessero improvvisare in vero uno di quegli abili scarti per sfuggire alla scornata del toro. E il loro volto si imbizzarriva nel corrugare le sopracciglia nere e svirgolanti. Altri ancora mostravano nel volto il fondo della loro forza che perdurava dopo le lunghe fatiche, come una roccia che fosse stata denudata della mollezza della terra che la copriva.
Il Passirio aveva rinvigorito le sue acque alla pioggia notturna e sembrava colla sua foga incitarli alla corsa. Partirono tra il verde dei viali nel mattino piovoso per salire volanti verso le alte cime dei monti che avrebbero messo alla prova la loro forza estrema. Nessuno sorrideva nella preoccupante certezza di dovere sopportare la fatica maggiore, quella che avrebbe ancora testimoniato la presenza del motore umano tra tanti motori meccanici. Uno illuso da un raggio di sole velato prese la fuga e abbandonò il gruppo che smaltava di un variopinto mosaico la strada alpina, è si protese in avanti.
Poco dopo altri due presero la rincorsa assieme, distaccandosi dagli altri compagni e dopo qualche tempo si unirono al fuggente come palline di mercurio che si staccano dal mucchio per fondersi con altre isolate. Le salite si susseguirono senza dare il conforto delle discese tra l’irrompere degli scrosci di pioggia che si aprivano, segnalati da fulmini e da tuoni riecheggiati dalle vallate. I valligiani che stavano a guardarli calzavano stivali di cuoio sulle gambe nude fino alia coscia e sembravano antichi guerrieri scesi dai castelli che un tempo chiudevano i valichi.
Il gruppo perdeva i suoi colori tra la foschia delle nuvole basse e nelle ombre delle rocciose pareti. Si divisero, si ricongiunsero, si isolarono, si riaggrupparono ancora, come per trovare nell’insieme quella stessa forza che raccoglie gli uccelli nelle loro emigrazioni.
Ma, ribelli al senso naturale dei migratori che ripetono vie eterne segnate dalle stagioni, questi giovani, com’è proprio degli uomini attratti per destino contro l’inosabile, giocavano una sfida alla natura, inerpicandosi sulle sue vecchie deità: le vette estreme; e irrisione era questa riconquista non più con macchine moderne e possenti, ma con il vecchio giocattolo a pedali, il più adatto tuttavia a trasformarsi in aratro della propria volontà.
Allora le montagne, come nelle leggende, si difesero con i sortilegi: veli spessi di pioggia già crearono un diaframma rigato davanti a loro, nuvole cariche di seppia ne alterarono i contorni, e lampi e tuoni gridarono contro i profanatori. Gli uomini si disseminarono e pareva fosse distintivo sparpagliarsi nella battaglia per offrire minor bersaglio all’offesa, mentre era l’ineluttabile selezione conseguente alla somma di forze del singolo.
E l’uomo, per vecchia condanna, si trovò ancora solo dinnanzi alla natura. Solo, con il suo aratro. E soli sbiancati dalla tormenta e dalla paura scomparvero a uno nell’opacità della pioggia, sulla neve, tra le nuvole.
Giovanni Comisso
Pubblicato sul n. 25 della rivista “Il Campione” del 18 giugno 1956
immagine in evidenza: “The final rush”, Jonas Lucien-Hector (Wikimedia Commons)