Saveria Chemotti e la letteratura femminile

Nella giornata dell’otto marzo, dedicata alle donne, abbiamo il grande privilegio di potervi proporre la lettura di un capitolo dell’ultimo romanzo di Saveria Chemotti “Ti ho cercata in ogni stanza”, (L’iguana Editrice).

Lo pubblichiamo proprio oggi perché Saveria, oltre che un’amica del Premio Comisso ( finalista con “La passione di una figlia ingrata” della XXXIV Edizione ) è anche e soprattutto una grande conoscitrice del mondo femminile. Le donne di cui ci parla da sempre con grande passione sono madri, figlie, sorelle, amiche, donne che hanno fatto la Storia, donne che si impegnano nel costruire ogni giorno la loro storia,  poetesse, scrittrici, donne che devono lottare per affermarsi. Lo fanno con forza, con rabbia, con dolcezza…lacrime e sorrisi, impegno e leggerezza.

Saveria si occupa di letteratura femminile come come scrittrice e come studiosa, a Padova  insegna Letteratura italiana di genere e delle donne. Dal 2003 coordina il Forum per le politiche e gli studi di genere dell’Ateneo.

Dirige la collana di studi di genere Soggetti rivelati. Ritratti, storie, scritture di donne, per la casa editrice Il Poligrafo, e la collana di narrativa Vicoli. Vie strette secondarie. Paesaggi letterari inesplorati, per la casa editrice Cleup.

Ha pubblicato numerosi saggi sulla narrativa e la poesia del Novecento italiano e ha dedicato molte ricerche alla storia e alla cultura delle donne.

A due anni da “La passione di una figlia ingrata”, Saveria Chemotti torna al romanzo con “Ti ho cercata in ogni stanza” per raccontare la relazione profonda che lega due giovani studentesse universitarie, una ribelle avida di affetto e una schiva ma dalla pelle dura. Nel bel mezzo della contestazione, del femminismo e della rivoluzione sessuale, la loro amicizia alimenterà un sentimento intenso, messo alla prova dalle circostanze che scuoteranno le loro vite con contraccolpi dagli esiti fatali e dalle soluzioni imprevedibili.
La vicenda delle protagoniste, Lydia e Berta, testimonia la fatica e la felicità di conquistare un nuovo destino possibile. Per due, per molte, per tutte.

Vi proponiamo la lettura di un capitolo del libro scelto per Piazza Comisso dall’Autrice stessa.

L’ACCAPPATOIO VERDE

“Sei comparsa al portone

in un vestito rosso

per dirmi che sei fuoco

che consuma e riaccende.”

Giuseppe Ungaretti

 

 Era gennaio, e una nebbia torva, umida e impenetrabile aveva risucchiato tutta la luce in minuscole gocce gelate. Ero arrivata stravolta e ansimante davanti al portone scuro. Guardava verso Prato della Valle, e immaginavo di veder calare il ponte levatoio con gli armigeri in uniforme.

Invece, non avevo fatto in tempo a premere il campanello che il cigolio dei cardini e lo schiocco del chiavistello mi annunciarono che il portone si stava aprendo senza alcuno forzo. Un secondo ingresso con le ante scorrevoli mi rivelò l’ampiezza della sala ricevimento.

Nello spazio tra le due entrate una ragazza stava uscendo di corsa senza guardare.Lampi ironici sfrecciarono dai suoi occhi quando salutò la suora appostata nella cabina che fungeva da portineria e centralina telefonica.

– Ciao ciao suor Grazia! – trillò.

Un attimo, e franò rovinosamente ai miei piedi inciampando nella sciarpa che portavo al collo, malmessa e con le frange tutte sbrindellate, travolgendo anche me.

– Disgraziataaa! dov’è che stai andando?

Gambe all’aria sulla mia valigia, la ragazza esplose in una risata spavalda e spensierata, e mentre lei si rialzava io, ancora a terra, balbettavo stupide scuse.

Ero reduce da parecchi giri di perlustrazione, alla ricerca di un posto letto che mi consentisse di usufruire del presalario assegnatomi a patto che dimostrassi di avere un alloggio per frequentare le lezioni. Tutto occupato. Troppo tardi per trovare una sistemazione. Troppo pochi i soldi che avevo messo da parte,anche avvalendomi del bonus ottenuto con la media eccellente alla maturità.

La mia famiglia non poteva permettersi di finanziarmi gli studi universitari, così avevo lavorato tutta l’estate a confezionare cassette di golden in un mercato trentino, rinomato non solo per la qualità della merce, ma anche per gli alti salari in nero e le mance distribuite col ricatto delle dodici ore al posto delle otto regolari. Bastava saltare la pausa pranzo, divorare di nascosto le mele con la cocciniglia destinate al macero o alle fabbriche di marmellata, e si poteva resistere fino a tardi. Per me, poi, le mele erano il nettare degli dei. Le compagne mi prendevano in giro dicendo che non mi sarei certo fatta sedurre dal serpente per una sola mela. Vero: avrei contrattato la misura dell’offerta prima di cadere in tentazione.

Esageravo talvolta con l’orario, e le gambe diventavano così molli da farmi rischiare un collasso,ma erano biglietti da cento lire in più. Si poteva fare. La sera, il pulmino della ditta ci riaccompagnava nei nostri paesi tra cori e chiacchiere per combattere il sonno.

Suor Grazia, allampanata figura nera con gli occhiali spessi e un sorriso contratto, si era precipitata ad aiutare Lydia informandosi premurosa su eventuali lividi e sbucciature, senza degnarmi di uno sguardo. Spirava un’atmosfera pesante, un misto di compassione e irritazione verso una ragazza visibilmente disorientata.

– Se cerca una stanza ha fatto un viaggio inutile. Il collegio è al completo – mi disse asprigna.

Non avevo nemmeno la forza per rialzarmi, così anche la dignità fece cilecca. Stavo per piangere, quando la ragazza intervenne rimbeccando la suora con un’espressione amabile sul viso: – Madre, non è da lei cacciare una ragazza stanca e provata dalla fatica di trovare un ricovero. Se questa poveretta fosse a dorso di un asino somiglierebbe alla Madonna in cerca di una grotta dove partorire. Oddio, madre, no! non è incinta, solo persa in una città straniera. Perché non la mette nella mia stanza?è enorme e c’è un divano letto inutilizzato: staremo benissimo anche in quattro. Ma la guardi, Madre! ha le nuvole negli occhi,minaccia un temporale.

Suor Grazia mi squadrò con diffidenza: – E da dove verresti fuori, tu?

– Da un paese del Trentino –soffiai fuori col poco fiato che mi era rimasto. – Devo trovare un alloggio entro stasera altrimenti mi tocca tornare a casa.

– Va bene, va bene, l’hai trovato.Lydia, accompagnala nella tua camera – disse con un rigurgito di disappunto. Infine, con un cenno della mano ossuta come per liberarsi di un oggetto ripugnante, mi consegnò alla ragazza che ghignandola ossequiò: – Oh, Madre benedetta! Lo so che ha un cuore grande,per questo l’ammiro tanto –e mi fece strada verso l’ascensore.

– Tranquilla, non poteva dirmi di no, mio padre elargisce un sacco di fondi all’Ordine purché tengano in gabbia una bestiaccia come me. Sei stata fortunata a incontrarmi. Io sono Lydia e tu?

– Filiberta, come mio nonno. Berta se preferisci – risposi. – Grazie Lydia, sono in debito.

– Nome e sciarpa agghiaccianti, ma – scherzò – se non inciampavo suor Disgrazia ti avrebbe buttata fuori come una pezzente. Eh, però so io come fregarla! I soldi comprano l’anima del diavolo e lei, tutta scura, è una sua parente stretta. Sta sempre a strofinare pollice e indice come se contasse le banconote,con la lingua che si affaccia tra le labbra per bagnare i polpastrelli: un tic che la descriveproprio bene, credimi. Non fidarti mai,sprizza veleno come un serpente.

Quella spiegazione mi strappò un sorriso.

Attraversammo il salone, soffitto alto, vecchie statue nelle nicchie, pavimento in cotto, enormi vasi di foglie verdi.Poi deviammo verso un corridoio che terminava con un ascensore. Nella tromba delle scale echeggiavano voci di ragazze. L’ascensore ballonzolava: dalle sue vetrate si scorgeva un giardino ben curato, con piante secolari. Al centro una costruzione bassa, dipinta di bianco, con una grande croce nera di ferro sul tetto.

Al quarto piano Lydia entrò in una stanza dalle ampie finestre aggrappate al sottotetto, mi presentò a due studentesse e mi aiutò a sistemare la roba nella cabina armadio a sei scomparti, riordinando in fretta e furia la sua biancheria.

– Ehi, benvenuta!Io mi chiamo Flavia. Vedo che sei sotto la protezione della contessina ammazzasuore: bel colpo, il tuo – commentò la biondina riccioluta col viso tempestato di lentiggini. – Prima le ammansisce e poi le sputa lontano come i noccioli delle giuggiole con cuicentra le statue dei santi nell’atrio.

Io ero sbigottita di fronte a un’accoglienza tanto vivace-animata. Imbambolata, ripassavo in silenzio la curva della figura fine di Lydia,sul metro e settanta, gambe lunghe, caschetto nero alla Vergottini, occhi scuri, bocca carnosa, pelle ambrata, collo slanciato, braccia tornite, mani curate, seno proporzionato, vitino affusolato.Tutto messo in risalto dal maglione rosso con la scollatura discreta, dalla gonna blu elasticizzata e dalle scarpe col tacco. Poteva avere un paio d’anni più di me. Io ero più formosa e decisamente goffa: grandi tette, pancetta, culo piatto, slavata, capelli arruffati, e indossavo sempre gonne lunghe a pieghe, calze pesanti, scarpe da montagna con la suola wibram.

Non è solo la ciccia in più, pensavo scorrendola. – Sembri una modella – mi sfuggì.

– Sì, di virtù – rise l’altra studentessa, una moracciona con gli occhi blu che risaltava nella piccola stanza con la sua figura scolpita. – Non lasciarti ingannare dalla frangetta da santarellina. Comunque io sono Daniela.

– Ah, non ascoltarle, Berta, tu pensa solo ad amarmi.

Amarla? Non avevo sentito pronunciare quell’espressione nemmeno dai fidanzati su in paese. Conoscevo l’amore dei genitori, l’amore di Dio, l’amore degli sposi nel matrimonio enient’altro. Questa qui l’avevo appena incontrata,non sapevo nemmeno chi fosse. E che bisogno d’amore poteva mai avere una così, bella, ricca e, non dubitavo, con uno stuolo di ragazzi ai suoi piedi? Le conoscevobene quelle come lei: figlie di buone famiglie senza problemi, con tanti grilli per la testa e la puzza sotto il naso. Avevo sempre provato un discreto disprezzo per le borghesi spuzzete che passeggiavano in ghingheri sul corso principale di Trento sollevando solo aria. Secondo i progetti di mio padre ero destinata a diventare la loro domestica, e per questo mi ero intestardita a continuare gli studi. Questo aveva indurito il mio carattere. Infatti ero diffidente e ruspia come i miei crozzi. Non mi lasciavo trascinare facilmente dai sentimenti perché avevo una dannata paura di svelarmi a qualcuno che mi imbrigliasse, e che rallentasse la mia corsa a perdifiato verso il traguardo che volevo raggiungere a tutti i costi. Cresciuta in una famiglia inflessibile e parca di effusioni, ero fin troppo morigerata, rigida nei precetti:la più vecchia diciottenne sulla faccia della terra. I libri erano gli unici amici fidati: traboccanti di parole,ma perfettamente silenziosi.

Il mio mondo compatto non prevedeva varchi agevoli.

– Berta? noi andiamo tutte nella sala riunioni del quarto. Vieni anche tu? – mi esortò Flavia.

– … del quarto?

– Quarto piano, ovviamente – intervenne sbuffando Lydia.

– Mmh, no, grazie, rimango qui a sistemare le mie cose. La prossima volta vengo volentieri.

La storia dell’accappatoio verde ebbe inizio la mattina dopo il mio arrivo, con il provvidenziale intervento di Lydia in occasione del mio primo ingresso nei bagni del quarto piano.

Davanti a me, nella stanza di piastrelle bianche, spiccavano due file di water in porcellana candida e, di fronte, le cabine azzurre per le docce. Le ragazze facevano la fila indossando vestaglie di spugna, con due asciugamani sulle spalle,uno piccolo e uno grande. Lydia notò subito il mio disagio e mi fece tornare di corsa in camera con un pretesto.

– Oddio, ma da dove vieni, Berta? mai visto una stanza da bagno? un bidet? I terroni ci piantano i pomodori, ma tu vieni dai monti e dovresti essere civilizzata. Adesso non fare quella faccia,a tutto c’è rimedio – e aprì il suo armadio. – Togliti il pigiama, la canottiera, le mutande della nonna e indossa questo. Toh – disse lanciandomi l’accappatoio verde. – Oddio, nuda strabordi dappertutto,servirebbe un lenzuolo matrimoniale per contenerti. Prendi un asciugamano piccolo e uno grande, usa il mio beauty case e vai a lavarti. Attenta: per la patata e il culo usi il bidet e l’asciugamano piccolo, l’altro va bene per il resto, chiaro?

Ero impietrita. Un groppo in gola traduceva l’istinto di tornarmene a casa, di fuggire da quel luogo di stramagre e straricche con due asciugamani, e non uno solo come usavo io.

Lydia prese la mia testa fra le sue mani: – Schiodati dal pavimento e corri, Berta. E sorridi, anche. Guardati, hai le pagliuzze dorate negli occhi. Falle vedere: saranno il tuo passepartout. Le musine sono pesanti pesanti,insopportabili. E tu, invece,puoi essere leggere leggera. Beh, chili a parte. Altro che amore, – concluse – ti servirà una passione esorbitante per convincermi a volerti bene.

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