Il Montello si spiega nella sua conformazione come un gioco di ragazzi con la sabbia lungo al mare. D’Annunzio lo chiamava: la mammella della Patria, per la sua forma, in vero rilassata e gli dava il Piave come collana per la sua trama di acque, di isole fiorite e di ghiaie.
Nei primordi geologici i ghiacciai hanno creato il grande solco del Piave tra le montagne così che i detriti si sono accumulati verso la pianura formando questo lungo e basso monte che forse somiglia soltanto a una balena in secca. Le acque vi hanno lavorato sopra modellandovi quelle ondulazioni continue e interposte che gli danno attraente bellezza e che hanno fatto trovare gli austriaci, nell’offensiva del giugno del 1918, come in un labirinto, perdendo i contatti e smarrendosi.
Non si sapeva dove avrebbero attaccato in quell’anno per completare la loro vittoria di Caporetto. Noi si stava ad attenderli tra il Brenta e il Piave. Una notte cominciò un bombardamento che faceva tremare i vetri e subito venne l’ordine di partire con gli autocarri che erano pronti. Il capitano, che era siciliano, indicandomi con il dito la parte orientale del Montello, mi disse che quel pezzo della mia terra gli austriaci se l’erano già preso.
L’estate in pieno, un vago senso di libertà, mi illusero di essere in un giorno della mia giovinezza scolastica quando con il professore di storia naturale si andava in gita sul Montello.
Lasciati gli autocarri si prese a salire una delle prime strade tra gli scoppi degli shrapnels che vibravano nuovi come campane. Già erano arrivate le divisioni che dovevano sostituire quelle disgregate e l’artiglieria, mentre l’aviazione era subito intervenuta mitragliando e bombardando i ponti che il nemico aveva gettato nella notte. Aveva scelto quel punto per costituirsi nell’avanzare, quella che si diceva: « Una testa di ponte », perché là verso il Piave il declivio si rompe in un alto strapiombo che poteva difendere gli attaccanti dalle nostre artiglierie.
L’azione andò altrimenti: gli aerei sostituirono i cannoni, il Piave si ingrossò per una grande pioggia e ruppe più volte i ponti, il Montello che di lontano sembrava una dolce curva, era invece fatto di doline e valloncelli intricati: tutto si dispose in nostro favore e fu facile la controffensiva. I soldati sentivano che il nemico non doveva più avanzare e la gente stessa di questa terra ne dava conferma rimanendo sul posto. Le donne lavavano la biancheria nel canale a poca distanza dalla linea, i contadini tagliavano il frumento nei campi e alto scoppiavano gli shrapnels, i ragazzi stavano vicino ai pezzi di artiglieria per divertirsi a vederli sparare.
Alla notte si alzavano i razzi verso Nervesa e le donne affacciate alle finestre dicevano che vi era la sagra.
La battaglia durò qualche giorno, perché il nemico aveva alcuni capisaldi di mitragliatori bene appostati e non si riesciva a snidarli. Infine prese le fornaci di Arcade, nella pianura e distrutti decisamente i ponti, si raggiunse il Piave facendo fuggire gli austriaci superstiti sull’altra sponda.
Quel giorno di vittoria fu indimenticabile. Avanzavo con i miei soldati per stabilire i collegamenti, il mio colonnello di artiglieria, che era piemontese e portava il berretto schiacciato come gli ufficiali di quel primo esercito d’Italia, apparve a cavallo con il suo maresciallo in quel campo di battaglia disseminato di morti e di armi. Quando mi vide, come per ringraziarmi che avevamo fatto bene il nostro lavoro, mi salutò con un: cerea mentre tratteneva un sorriso di ebbrezza.
Tutto concorreva a farci sentire nella continuità del Risorgimento concretata dalla realtà della storia insegnata a scuola e dai sentimenti infusi dai nostri vecchi. Si stabiliva in noi una fede e una certezza nella vita, fatta di logiche conseguenze per cui ci si sentiva felici di appartenervi.
Quei giorni di battaglia si erano svolti sul ritmo di una gita scolastica o di una festa in campagna. In poco tempo si erano fatti i collegamenti tra le artiglierie e il comando perché si spostavano sempre da una all’altra delle strade parallele che attraversano il Montello e avevamo già steso in precedenza le lince lungo quelle strade, in un momento di riposo si era trovato un pianoforte in una villa abbandonata e uno prese a suonare, un ufficiale del comando, credendomi pratico delle ville del luogo, mi disse di accompagnarlo con una piccola macchina scoperta e sportiva per cercare un alloggio per il generale, invece si sbagliò strada tra le acace lievi come piume, abbattute dai colpi e ci si trovò in prima linea nell’imminenza dell’attacco. Nel comando sembrava di essere in una scena d’una commedia, con gli aiutanti che bisticciavano tra loro sul modo migliore di fare lo zabaglione chiesto dal generale esaurito e così speravano non ricevere altro ordine.
A un altro comando un generale elegante che conoscevo perché era della mia stessa città mi accolse con il grido: difendiamo Treviso.
Anche tutti i suoi ufficiali erano eleganti, superbi di giovinezza ed egli dava a loro ordini svelti di portarsi con i pezzi di artiglieria in un punto o in un altro, come desse egli stesso colpi di spada in un duello.
Alla sera si mangiava con il capitano lungo ai fossi nel fresco delle siepi. Il mio colonnello di artiglieria voleva avere notizie di una batteria che taceva da giorni. La cercammo, venne ritrovata, non poteva muoversi, perché individuata e sempre sotto al tiro, volevano l’ordine di spostarsi, intanati in buche e avevano fame. Portammo il filo e il telefono, furono appena in tempo di ricevere l’ordine, il tiro aveva ripreso e rimasero ancora isolati, le granate ci passavano rasenti, penetravano nella terra rossa e cretosa del Montello, usandoci la cortesia di non scoppiare. Nelle pause del lavoro, del gioco, i soldati si arrampicavano sui ciliegi ridendo del contadino che era rimasto a guardia e protestava.
Un giugno splendente, venti anni e la vittoria, cosa si poteva desiderare di più da coloro che non avevano incontrato la morte?
Il Montello fatto dai ghiacciai dei primordi, come per un gioco d’acque e di sabbia, da ragazzi lungo al mare, aveva avuto queste giornate che la storia ricorda, simili a una giocosa scampagnata estiva.
Adesso che gli anni sono passati, che tutto ha preso altro giro, altro significato: vita, morte, guerra e pace, per un attimo si ha il sospetto spicciativo ed esistenzialista che una folle giornata domenicale, estiva e motorizzata, sia quasi una giornata di battaglia, di quelle di allora, con tante morti per coloro destinati a morire e con memorabile allegrezza per quelli che si fossero salvati. Si è arrivati fino al paese di Santi Angeli, per quelle stradine immutate nelle loro ombre lungo alle siepi e nell’abbagliante maturazione delle biade flessuose per l’avvallarsi dei pendii. L’oste ci offre un vino rosso denso e saporito di una annata che aveva fatto lentamente appassire i grappoli.
Ci parla di quella casa che aveva ritrovata distrutta appena finita quella guerra, e i morti erano frammisti alle pietre.
Ora tutto è nuovo e accogliente, l’aria sottile ventilata dal Piave, dà il benessere di una convalescenza dopo un lungo male.
Nel parlare, nel rievocare il passato lontano, si versa sbadati un bicchiere di quel vino e il bianco della tovaglia si imbeve di rosso come una benda che assorba il sangue da una ferita profonda che non si possa chiudere.
Giovanni Comisso
Gazzetta del Popolo, 25 luglio 1964