Ricordava quella mattina, quando andò per la prima volta a scuola. Accanto alla finestra, mentre sua mamma si vestiva, aveva guardato attraverso i vetri la giornata livida d’ottobre e non l’aveva più dimenticata nella sua vita. Appena sua madre lo aveva lasciato solo nel collegio, reclinato il capo sul banco, s’era messo a piangere disperatamente. Era la prima volta che si separava da sua madre.
La maestra lo aveva fatto accompagnare in giardino dove alcune signorine vestite di bianco stavano lavorando di ricami e l’una lo aveva conteso all’altra per calmare il suo pianto coi baci. Poi gli avevano regalato carte di cioccolatini rosse e azzurre e gli avevano insegnato ad imprimere al ditale sulle foglie dei sempreverdi per formare grossi coriandoli.
Queste signorine vestite di bianco, queste carte rosse e azzurre. questi coriandoli verdi egli ricordò per tutta la vita. Rimase in quel collegio due anni ed altri furono i ricordi indimenticabili. I festini di Carnevale, col grande coro cantato da tutti gli allievi:
Va, pensiero
sull’ali dorate.
Va, ti posa sui clivi e sui colli…
Ricordava la grande cadenza e le prime parole di quel canto. Nel cantare, tutti allineati nella grande sala del primo piano, dovevano tenere le braccia incrociate dietro alla schiena. Due degli allievi, due fratelli, vestiti da corazzieri stavano uno di fronte all’altro nel mezzo della sala per dare decoro alla scena. Ricordava i loro volti tondi e rossi, con gli occhi intimiditi sotto l’elmo lucente. Tutti gli invitati facevano grandi meraviglie per loro, tutti guardammo le loro corazze, ridevano di piacere a vederli marciare e battevano loro le mani. Quanto aveva sofferto di gelosia per questo loro trionfo.
Riandava le ore afose dei pomeriggi d’estate, chiusi nella piccola scuola, la maestra dalla cattedra dava l’ordine di dormire e tutti seguendo il suo esempio appoggiavano la testa sulle braccia conserte e s’addormentavano. Quante volte in certi momenti della sua vita affaticata gli si era ridestato tutto l’aspetto di quella scuola col sole che filtrava dalle imposte socchiuse, le teste bionde e brune dei suoi compagni e la sua giubetta ornata di merletti, ma non aveva potuto più ritrovare quel sereno abbandono. E le corse che faceva nell’ora di ricreazione per il sentiero dell’orto attiguo al giardino, sentiero che girava lungo un muro di mattoni rossi attorno alle gombine piene d’insalata: erano le prime prove dei suoi muscoli appena formati. Ricordava lo ansare nella corsa, ma non ha più rivisto quell’orto e quel sentiero e quel muro rosso.
Ogni volta ripassa davanti al vecchio collegio vorrebbe entrare e rivedere quei luoghi, ma teme che il ricordo debba scomparire senza potere rivedere nulla di più di quello che già vede.
Nell’ ora della colazione venivano le serve coi cestini, tutti si radunavano in una saletta a pianterreno, si accendevano le macchinette per riscaldare le vivande, l’odore del burro si mischiava a quello dello spirito, e quest’odore rimase per lui come l’immagine del vorace appetito della sua infanzia.
Poi era passato alle scuole pubbliche, qui le aule erano più grandi, il numero dei compagni maggiore e la novità attraente era data dai ragazzi del popolo coi quali si trovava per la prima volta vicino. Il numero dei libri era accresciuto ed ebbe una grande busta di tela cerata. Aveva una grande cura per i pennini, prediligeva certi pennini sottili ed acuminati come spine di rose che gli davano modo di scrivere con tratti leggeri e delicati.
Quella posizione, con la testa ricurva, l’indice posato con forza sulla penna, il riverbero del sole sulla pagina e le parole che si componevano esili e precise tra l’obbligo delle righe, costituivano per lui il momento felice della certezza della sua possibilità a creare. Alla sera si divertiva a fare l’elenco di tutti i suoi compagni, ne scriveva il loro nome e cognome e vi aggiungeva il soprannome: Breda Arturo, detto: scheletro; Marinato Italico, detto: cento diavoli per capello, perché aveva i capelli rossi. Aveva ritrovato, tra vecchie carte una fotografia di questo tempo, uno di quei gruppi che si fanno alla fine dell’anno scolastico. Gli tremava la mano nell’osservare. Tanti ragazzi stavano disposti in gradinata contro la parete di una vecchia casa; ritrovò subito al centro se stesso col collettino bianco e le braccia conserte, fisso, quasi imbronciato, lo sguardo. Gli altri chi sorridente, chi attonito, alcuni sani altri immiseriti, tutti gli occhi fissi in avanti come all’avvenire. Poveri e ricchi: ognuno con la sua vita, ognuno col suo destino. Quello biondo seduto per terra a gambe incrociate lo riconobbe subito: era stato misteriosamente ucciso subito dopo la guerra, quello dietro a lui intimidito nello sguardo lo aveva rivisto dietro lo sportello d’una banca scrivere ricurvo, quello seduto alla sua destra, chiuso nella mantellina a bottoni d’oro e sorridente negli occhi socchiusi come per un riverbero, sapeva che era morto in guerra, un altro un po’ in disparte dagli altri nero di pelle, figlio d’un fruttivendolo, era diventato un famoso cantante. Di tutti gli altri egli non ricordava né il loro nome e cognome, né il loro soprannome, né più li aveva rivisti. Berretti di tutte le forme, alcuni simili a fez, altri alla marinara, altri da ciclista, altri con visiere lucide e fregi di stelle o di ancore; scarpe di stoffa, zoccoli e scarpe di vernice, vestiti di velluto con cinturette di cuoio e vestiti oscuri ed informi.
Una volta il maestro mostrò alcuni francobolli delle Repubbliche Americane e poi li distribuì solamente tra quelli che dopo scuola andavano da lui a ripetizione. Saranno passati trenta anni da quel giorno, ma ancora adesso quando incontra quel maestro fattosi vecchio e tremante, non può fare a meno di evitare di salutarlo risentendo viva come in quel giorno, tutta l’antipatia che gli aveva suscitato. Dietro alle scuole vi era un grande cortile cinto di ippocastani, dove facevano la ginnastica e si radunavano a giocare nel pomeriggio nell’attesa che venissero riprese le lezioni.
Giuocavano agli indiani, adornandosi la testa colle foglie degli ippocastani. Correvano, si inseguivano, il giovane corpo trasudava e pareva crescere dopo ogni giuoco.
Tra vecchie carte aveva anche ritrovato alcuni suoi componimenti di quel tempo. Aveva lungamente osservato stupito quella calligrafia esile e serena, e il suo nome e cognome scritto in un modo che ora più non riescirebbe a rifare, gli pareva come scritto da un altro. Pochissimi gli errori, tutto chiaro e ordinato, in quei fogli sentiva la sua infanzia. Poi tutto doveva cambiare.
A undici anni entrò in ginnasio: ogni anno che seguiva era sempre denso di vita e tutto in lui si trasformava come per un periodo di parecchi anni. Non più ebbe la passione per i pennini sottili. Ritrovò i quaderni di questi nuovi anni: ogni parola sembrava scritta da una mano impaziente, scorretti e vuoti gli svolgimenti dei temi; li sentiva come scritti tra una corsa e l’altra sulla bicicletta che gli era stata regalata appena finito le elementari. Sotto ad un componimento trovò questa annotazione del professore: “Manca affatto di buon senso e procede stentato. Del resto non si possono fare compiti trastullandosi e chiacchierando continuamente”. Ricordava la grande aula con le sue cinque finestre che davano sul giardino, la bellezza dei cieli all’avvicinarsi della primavera e attraverso le finestre aperte il profumo della campagna vicina, da dove giungevano le voci dei contadini intenti ad arare. Egli non ascoltava più la voce del professore che spiegava le regole latine dell’ut e del cum, segretamente apriva l’atlante del mondo per sognare itinerarii di viaggi.
L’adolescenza era vicina e il cuore in tumulto gli travolgeva ogni voglia lontano dai libri.
Giovanni Comisso
da Il Giornale del 27/08/1950
Immagine in evidenza: Albert Anker Schreibender Knabe c1908 (Wikimedia Commons))