“Sogni e Favole” di Emanuele Trevi
Se l’incipit di ‘Sogni e favole’ ne conferma il genere, poche righe più in là veniamo subito messi in guardia dal considerare questo libro unicamente come un racconto retrospettivo sull’esistenza del suo autore. La ricostruzione veritiera dei suoi incontri con talenti del calibro di Arturo Patten, Amelia Rosselli, Cesare Garboli, offre l’occasione al lettore di godere della loro unicità, di sentire l’intensità del loro modo di guardare all’impronta della Bellezza sul mondo che sempre si dissocia da ‘ogni forma di genericità’, di ricondurre i loro destini a una ‘qualità speciale del tempo’ a partire dalla Roma di inizio anni Ottanta.
Ma il nucleo centrale del romanzo, ciò che costituisce la struttura attorno cui ruota l’intera narrazione, è il sonetto di Metastasio ‘Sogni, e favole io fingo’, da cui il titolo. Quel sonetto che Garboli fece conoscere a Trevi, di cui gli aveva parlato molte volte durante i loro incontri, è l’eredità ricevuta, il libro che andava scritto per comprenderne tutta l’importanza e perché così era solito fare il maestro negli ultimi anni: ‘regalare argomenti a persone in grado di apprezzarli’.
Il sonetto del ‘laborioso’ Metastasio è una parentesi unica di soggettività mentre stava componendo quella che è considerata la sua opera più importante: L’Olimpiade. Ad un certo punto, per un attimo, ‘si è chiesto chi era, cosa stava facendo’. Di verso in verso – di pagina in pagina – cresce la consapevolezza che ‘tutto è menzogna, che vivere è delirare’.