“Quel luogo a me proibito” di Elisa Ruotolo
Ci sono vite che non si lasciano vivere, che non riescono a vivere, perché ancorate a schemi, ruoli, divieti, imposti da altri. Intere vite vissute così, tra privazioni e negazioni, facendosele bastare, credendole perfette e pure, perché basate sul sacrificio (di sé), in nome di un bene comune e familiare superiore al singolo, ai suoi desideri e passioni: un’ortodossia che lega mani e piedi, avvince cuore e mente di alcune vite sciupate e mancate. Quante sono? Nessuno lo sa. Alcune di esse, però, talvolta si riscuotono: un incontro fortuito, un mero accidente, le porta a un bivio – al bivio cui giungiamo sempre tutti, chi prima, chi poi –: da una parte ci si salva e si vive, finalmente; dall’altra ci si spegne ora dopo ora, stagione dopo stagione, senza gioire, soffrire, né amare o, per lo meno, senza neppure avere provato a farlo. La letteratura, quella che graffia e fa male, che attrae e al tempo stesso respinge, parola dopo parola, come un elastico, spesso ci restituisce alcune di queste esistenze, raccontandoci le loro storie di rinunce, mortificazioni e, in alcuni casi, riscatto. Elisa Ruotolo ne ha scritta una, sublime, Quel luogo a me proibito, Feltrinelli. E attraverso la narrazione di quella (sua) riscossa, ha emancipato anche le altre – donne e vite.