Ovunque sulla terra gli uomini” di Marco Marrucci
Presentato come un “borgesiano atlante di esseri immaginari che rivelano tanto quanto nascondono”, è oltre, in un continuo assestamento di proporzioni tra la storia principe di ogni racconto e quelle o quella intorno, in cui si inserisce, quasi una piccolezza da guardare nel gigantesco e il gigantesco nel lillipuziano, una lente che muta gradazione di fronte all’oggetto osservato e allo scenario in cui quell’oggetto si colloca per essere parte di una realtà, spesso onirica. Si sentono echi di Borges, di Kafka e di Neuman, della letteratura del Nord Europa, tracce di surrealismo magico e di notturni baudelairiani, di mitologia greca e leggende popolari in cui si radica l’anima di un popolo. Sono storie di segreti, tormenti e paure, sono uomini e donne che vivono un incubo o che pensano di viverlo a tal punto da fare della realtà un illusorio campo d’azione in cui la presunta semplicità dell’esistenza si rivela un complicato groviglio di trame intorno a cui c’è il baratro del non essere o del non esistere. Linguaggio così ricco e pieno da rendere possibile, piacevole la fuga dalle assenze o da trarci in inganno nella convinzione in cui ci conduce, che siamo nel dolore e lo stiamo attraversando, mentre in verità la parola lo trasforma e lo allontana dal pianto auto-commiserevole, forse liberatorio e salvifico. Qui la salvezza non esiste o è una strana, mai banale storia. Anche laddove un nonno racconta al nipote di come, nella notte dei suoi tempi, il buio, necessario quanto la luce, fosse il frutto di una pesca speciale in cui gli uomini del villaggio con caducei di legno in lanci verso il cielo, alla sommità del monte, arpionavano i lembi della notte facendola cadere giù sul sonno della terra e il bambino impara a vedere nel cielo i sogni del nonno e della sua gente. Stile narrativo dalla forte identità e dal ritmo perfetto mai interrotto dalla complessità di un testo bello e leggibile.