“Nella notte il cane” di Fabrizio Coscia
Ci si può affezionare a un’opera d’arte? A me è successo con un quadro di Filippo Marsigli, un artista napoletano vissuto nel XIX secolo. La tela, maestosa per dimensioni, raffigura Omero, ospite del pastore Glauco, nell’atto di narrare «le cose sofferte» nei suoi viaggi all’isola di Scio. Ai piedi di Glauco è rappresentato un cane, col muso poggiato sul pavimento e l’espressione commossa dal canto del poeta. Una linea ideale unisce la figura di Omero a quella del cane. Posti l’uno di fronte all’altro, ai due estremi della composizione, essi sembrano suggerire un’impercettibile comunanza, una dimenticata coappartenenza di mondi distanti ma non troppo lontani.
Sul mistero di questa millenaria amicizia si interroga Fabrizio Coscia nel suo ultimo libro, Nella notte il cane (Editoriale Scientifica, 2021). A partire dal racconto di aneddoti casalinghi, segnati dalla presenza decisiva del tenerissimo Pedro, Coscia conduce il lettore lungo una serie di “sconfinamenti”, per riandare, ben oltre l’angustia delle mura domestiche, al più vasto campo dell’arte e della letteratura. Sullo sfondo, la consapevolezza di un rischio, al quale sempre è esposto il mestiere dello scrittore: il pericolo di sprofondare nella percezione dell’insensatezza, o peggio, dell’inutilità delle proprie parole. Ecco allora che l’immagine “dell’uomo con il suo cane” si fa metafora di un legame ancor più insondabile e difficile a spiegarsi: quello fra scrittura e silenzio, fra la parola poetica e ciò che vive al di là di essa.
Ma c’è tacere e tacere, insegnano gli animali. Divenuto cittadino onorario del mondo della letteratura, mi piace pensare a Pedro come a un fratello letterario – certo più amato e fortunato – del cane Bobi, sguinzagliato protagonista di un racconto di Goffredo Parise. E che a Pedro, e a tutti i nostri amici a quattro zampe, siano dedicate le parole lapidarie con cui quel racconto si conclude: «I cani hanno l’anima».
Martina Dell’Annunziata