“L’unica notte che abbiamo” di Paolo Miorandi
Capovolta buendiana narrazione dall’umore malinconico nella scelta di una sovrapposizione di voci che si inseguono con l’urgenza di narrare la medesima storia dal proprio punto di vista. Tutto è nell’allestimento, non urlato, di un processo a una famiglia, colpevole dell’infelicità di chi, portando la narrazione a un estraneo al contesto familiare, si fa parte del mondo, si sforza di capire, forse non perdona, ma ricostruisce. È il motore di questo processo il senso del libro, la figlia di Ernesto, uomo di nessuna qualità, reduce, disilluso, dalla campagna di Russia, manipolatore delle lusinghe femminili per il proprio “diritto” di esistere fuori dal nucleo familiare, dove nulla è definito, manca lo sguardo severo di una figlia, liberi da una moglie che della propria femminilità non sa che farsene, salvo urlare il bisogno della propria creatura per non vedere la propria solitudine. Intorno ruotano le altre storie: il padre di Ernesto, che, incolto, senza nessuna attitudine, è obbligato dal genitore a trovare un proprio posto nel (Nuovo) Mondo, la madre, che, incapace di sostenere le vite nutrite in grembo, se ne libera, lasciandole a chi possa garantire loro una dignità, un conforto, la risposta alle proprie mancanze, la maestra Hilde che questa risposta non si rifiuta di darla, colmando la propria maternità naufragata, l’amore che è sotto le sue cattoliche vesti, accettando di crescere Ernesto e recuperando le sorti del fratello nella costituzione di una famiglia possibile col supporto della maestra Martini con cui condivide una casa e la solitaria dimensione affettiva di desertificazione maschile. E gli uomini ingravidano donne, manipolano gli affetti materni, non sanno che talento abbiano e neanche se lo chiedono in un naufragio senza speranza. Rimane la pietas che i loro ultimi giorni inducono. Resistono alla “decomposizione” la maestra che aiuta la figlia di Ernesto a studiare, a crescere consapevole di sé, e la nonna materna, donna “nervosa e irascibile” e “capace di sottigliezze di pensiero e delicate sensibilità”, con un matrimonio disastroso, che torna ad assistere il marito, pur nella caduta, conformandosi alla propria coscienza che non travalica l’altro, pur nelle sue miserie, lo salva nella forza con cui sa stare al mondo e offre alla nipote “la via dei campi”. Il libro regala una composta emotività, ma lascia sotto un pianto sommesso, quello di chi conosce il difficile moto di ricerca di sé fuori dagli ingombri di saghe familiari secolari.