“La straniera” di Claudia Durastanti
La straniera non è un diario e nemmeno un romanzo, ma un po’ le due cose insieme, un memoir che inizia con una storia che l’autrice non ha vissuto – l’incontro fra mamma e papà – e che forse per questo è stata assorbita come le favole belle che ci vengono raccontate da bambini. Un uomo sordo e una donna sorda s’incontrano e si sposano: è una storia di magia o un evento più che normale? La risposta sia lasciata agli altri, quel che conta è che è una storia vera – e le storie vere sono proprio così, tra la magia e l’ordinario, e infatti anche quell’amore finisce, ma resta il racconto. Resterà per sempre, quello, se sapremo conservarlo, e, ascoltandolo dall’esterno, ci sembrerà un tutto e avremo ricostruito quell’unità (che non c’è più). Nel corso del libro, Durastanti torna a essere ciò che racconta: bambina da bambina, ragazza da ragazza, donna da donna, e i rimandi a un tempo secondo finiscono il più delle volte in un inciso. La scelta di una narrazione che procede a pezzi – di puzzle più che di mosaico – si rivela indovinata, perché frammenta la storia e consente una lettura accelerata. Il merito maggiore è da ritrovare in quello che il libro non fa. Su tutti, c’è il merito di non assegnare risposte universali: la ricerca produce un’analisi personale e sta al lettore trovare i punti di contatto. Nessun moralismo, poche prediche, pochi ammonimenti – anche i consigli sono allusi e passano attraverso il racconto. Si è evitato, ed è importante, un processo di vittimizzazione e/o glorificazione del disabile e della disabilità. La Durastanti restituisce, attraverso il racconto, dignità alle sconfitte e cerca, con la scrittura, una giustificazione ai propri dolori e un significato alla propria storia.
Storia italo-americana, di emigrazione dal sud, di vita sospesa tra l’America, l’idea del futuro, l’ampio dilatarsi delle cose e delle strade, e quel pezzo di Italia fuori da ogni tempo che non sia quello consacrato a un eterno e uguale svolgersi delle azioni che si fanno rito, abitudine salvifica, ossessione che preserva, malattia che salva. Lo straniamento è un processo al quadrato, perché l’apolide non è solo nella sospensione tra due mondi, due collocazioni temporali che confliggono e producono scintille, ma anche nell’intimo nucleo familiare in cui chi ci genera non si rivolge al mondo con il nostro linguaggio, perché non sente i suoni intorno, non li distingue, si sente fragile, precipita nei silenzi e conduce una battaglia perenne che è la coperta con cui avviluppare le proprie paure e i propri figli, salvo poi spingerli irruentemente verso la vita che li ha traditi. Allora, esplode lo smarrimento di un figlio, davanti a un padre e una madre ribelli all’atemporalità del sud e alla sorte che ovatta i piaceri, in una ricerca perenne di ciò che è negato, in una mancanza da cui uscire con l’ostinazione di chi non cede a un volere senza misericordia di un dio dimenticato. C’è la loro mancanza e quella dei figli, che imparano la fragilità di chi li ha messi al mondo, facendo finta di nulla, dialogando con loro in una lingua che non è dei segni, ma di un amore che passa dal bisogno di essere “normali. Lo stile narrativo si nutre di una sapiente costruzione verbale, in un ritmo che, costante, si ripete a intervalli regolari, senza eccessi: frasi brevi, esordio potente che o si ferma o si apre meno irruento per raggiungere il culmine di una collina che discende immediatamente dopo per chiudersi nel silenzio di un punto. La centralità è racchiusa in un lasso di tempo che talvolta indugia troppo su un Io che deborda, lasciando dietro troppa storia che sta oltre il sipario, la celebrazione. Ci sfugge il dato che la peculiarità di questa narrazione è esattamente nei silenzi di quei punti a partire dai quali nasce una storia non scritta.