Giada, giovane fotografa romana, ha dedicato alcuni anni della sua vita a un celebre e brillante fotografo. Alla morte improvvisa di lui e per sua precisa volontà, il corpo dell’uomo viene plastinato e inserito in un tour “Body World”. La donna decide di sostare nella sala espositiva dove si trova l’amato, non abbandonandolo per tutta la durata della mostra. E lì, in quei trenta giorni, compirà la sua personale discesa negli inferi, alla ricerca di un senso nella sua vita, perso o forse dimenticato nella paura di confrontarsi con l’essere amato. La rielaborazione del lutto condurrà alla rinascita di Giada dopo il necessario abbandono di quella parte di lei che ha vissuto di riflesso.
La scelta del soggetto è originale e attuale. Approfonditi i tratti del dramma dell’amore perduto o forse mai esistito. Interessante anche l’espediente narrativo per rendere possibile la rinascita. Peccato che il lieto fine renda irrealistica la storia, conducendola qualche decina di righe più in là di quanto avrebbe richiesto un finale aperto e credibile. e.
Giada, la protagonista, è annientata dalla morte del suo amore, un geniale e famoso fotografo, per il quale ha sempre accantonato se stessa. L’uomo prima della morte ha firmato un contratto che prevede la “plastinazione” del suo corpo, esposto in una sorta di museo lugubre e inquietante. Smarrita e confusa, priva della sua stella polare, imbottita da psicofarmaci che l’aiutano a sopravvivere accanto al corpo inanimato dell’uomo tanto amato, da cui non riesce a distaccarsi, Giada affronterà un percorso interiore e un difficile viaggio di recupero di sé stessa, attraverso rancori, illusioni e disillusioni. Un dialogo forte, intimo, a tratti irrazionale, un viaggio nel tempo dalla bambina che è stata fino all’oggi, rimasto invischiato in un corpo che c’è senza esserci più. Una lotta fino alla necessaria distruzione del sé e dell’amore “guasto” che non c’è più o che non c’è mai stato.
Questo libro mi è stato regalato a Natale.
È già da un po’…che ha trovato il suo posto.
Come posso parlarvi di Giada!?
Come posso parlarvi dell’uomo che ama, mentre lei, lo vede lì, giorno dopo giorno, in un plastinato!?
Come posso parlarvi delle persone che vanno alla mostra e magari sono infastidite dalla sua presenza!? In fondo non sei mica al cimitero!!
È facile immedesimarsi in Giada, nel suo dolore.
In fondo il dolore è vivo, è un guasto.
Ma Giada è viva e mangia cornetti con la marmellata.
È facile immedesimarsi con la vita.
Con il plastinato, no.
Con la morte, no.
Con la morte, ci devi solo fare i conti.
Perdonami Giorgia Tribuiani io le recensioni non le so mica fare
Guasti è la storia di Giada, una giovane donna costretta a vivere il lutto per la morte del compagno, un famoso fotografo che decide di donare il proprio corpo al dottor Tulp e di farlo diventare arte: il corpo viene plastinato ed esposto in una mostra.
Guasti è un percorso che si svolge in trenta giorni, la medesima durata della mostra di corpi plastinati, che costringe Giada a confrontarsi con la morte del proprio compagno in una sovraesposizione di sentimenti: sarà costretta a meditare sul lutto e sul significato dell’arte nel vuoto pneumatico della sua nuova esistenza.
Scritto in uno stile unico in cui si mescolano flussi di coscienza, dialoghi, descrizioni, Guasti è un romanzo sul dentro e sul fuori: siamo con Giada e siamo dentro la sua testa.
La narrazione è caratterizzata da un movimento oscillatorio che rende straniante e realistica la condizione di chi ha appena subito un lutto ed è costretto ad avere un rapporto visivo con un corpo che non è più vita.
Guasti è una storia di lacerazioni, di ferite, cucite con mano lieve e precisa dalla penna di Giorgia Tribuiani. Il lettore segue il filo insieme a Giada, la protagonista, in un’atmosfera onirica che è quella di un lutto ancora da compiersi. Il viaggio avviene nel museo che ospita il corpo plastinato del grande amore della giovane donna, fotografo e artista dal carisma accecante. Nonostante la morte. Giada percorre i corridoi dell’edificio, e noi con lei, obbligati a finire sempre là, di fronte ai muscoli scoperti del corpo senza vita dell’uomo che c’era e ancora c’è, senza essere. Luogo e tempo non esistono, e tutto è eterno e lento, inesorabile. Finché qualcosa si spezza, finché Giada dal passato lentamente riemerge, e piano piano lascia il filo. Di nuovo tutto scorre. Luce. Vita.
La morte scatta una foto e ci coglie in quell’attimo: sorpresi, impreparati, persi, guasti.
L’uomo scatta una foto e uccide la dinamicità, imprigiona un’immagine, cattura un momento e impedendogli di evolversi lo congela.
Giorgia Tribuiani scrive di morte e fotografia, di amore e di riscatto.
Il lutto rende in qualche modo omaggio al defunto, in segno di rispetto, in preda al dolore, si tace o si urlano lacrime.
Chi resta, facendosene una ragione, supera il lutto, va avanti.
In Guasti il lutto è surreale, grottesco, dilatato, vischioso.
Giada ha le sue passioni, vive all’ombra di un grande artista, lo ama. Lui muore.
Giada fa i conti con la morte, con il lutto, con la mancanza, e infine con sé stessa.
Guasti come i gabinetti dei musei, come gli amori che consumano, come i lutti che non si elaborano, come corpi senza vita. Tutto apparentemente guasto, ma il guizzo di una bolla di marmellata che esce dal cornetto appena morso, tradisce un desiderio di vitalità che lentamente sostiene e consola. Un bel libro che per ambientazione, costruzione dei personaggi, dialoghi in perfetta continuità con la narrazione, suggerisce un adattamento teatrale.
Guasti di Giorgia Tribuiani è un romanzo d’esordio che non potrà lasciare indifferenti. Giada, si trova a non poter elaborare il lutto per il compagno -in vita un fotografo di notevole fama- perché egli ha scelto di donare il proprio corpo al dottor Tulp per farsi plastinare e diventare, da cadavere, un’opera d’arte esposta in una mostra. Mentre i cadaveri posano inerti, a servizio dell’arte, gli oggetti e i luoghi sembrano animati, come le scale mobili che partoriscono le teste delle persone che salgono, come le porte del bar che ingoiano e rigurgitano gente, o guaiscono, o infine come i bagni, che parlano della vita attraverso rumori e odori e tramite un cartello dalla scritta “guasto”. Il guasto è il meccanismo inceppato nella mente di Giada. C’è una certa abilità narrativa nel destreggiarsi tra il racconto in terza persona, i monologhi in prima e i dialoghi col morto in seconda persona. Si evita l’insidia del racconto macabro, spostando l’attenzione dai cadaveri come oggetti all’effetto che essi producono su chi resta. Il lettore viene condotto dal territorio del dramma a quello popolato da alcune domande fondamentali. Che cos’è arte e cosa non lo è? Qual è il confine tra l’etica e l’arte? E’ possibile amare senza uccidere l’amato? Cosa significa morire? E lasciare che i morti possano essere morti?
Giada è una donna che si risveglia. Quando il suo compagno muore, scopre di non poter in alcun modo impedire che si compia la sua volontà. Come una moderna madonna in adorazione della sua croce, sta ai piedi dell’installazione e si interroga, si lacera, si sfregia l’anima con la sola domanda possibile: “e ora, che ne sarà di me?”
Ma la domanda più profonda, il dono più grande che possa farsi, è chiedersi semmai: “cosa ne è stato finora di me?”
Se “Guasti” di Giorgia Tribuiani fosse una lettera sarebbe una V.
La V di Vertigine, quella che ti coglie seguendo la protagonista mentre si avviluppa dentro le sue ossessioni.
V di Voragine, in cui ti sembra di precipitare insieme a Giada mentre si cerca nel riflesso del suo uomo che non è più e tuttavia non smette di essere.
V di Voland, la casa editrice che nel 2018 ha creduto in lei e ha pubblicato un’esordiente.
Banale ma non inopportuna è infine la V di Vendetta, che in gran parte del romanzo resta nascosta, latente, segreta, forse distorta, infine incombente.
“Guasti” è la favola di un corpo, quello di un famoso fotografo esposto in un museo come un capolavoro, eppure non perfetto: con una protuberanza che ‘ricorda un naso da Pinocchio’ (così l’autrice addita subito al lettore l’inganno, la morte non compiuta di quel corpo plastinato). Dalla prima pagina, Giada non stacca lo sguardo da quel corpo, ma ‘chi’ guarda ‘chi’? In questa favola ‘guasta’ di Orfeo e Euridice, Giada non è meno morta del suo amore plastinato (entrambi continuano a morire, di una morte differente, entrambi usciranno ‘smembrati’ da questa favola oscura), il Dottor Tulp, il plastinatore, è Pluto (anche il nome ne pare un anagramma), colui che ‘toglie ai soggetti il passato e il futuro’, la Nikon del fotografo la lira incantatrice, il Custode la Parca, l’acqua che sgorga dai rubinetti del bagno guasto lo Stige, dove tutto naufraga. La scrittura si muove sulla pagina con tante virgole, pochi punti. La forma di questo romanzo sul corpo è il suo contenuto: un ‘albero di nervi’, un reticolo di vene.