“Configurazione Tundra” di Elena Giorgiana Mirabelli
“Configurazione Tundra” è un romanzo distopico, un manuale di sopravvivenza, e un trattato di urbanistica. L’architettura, così come l’impianto di una città, influenzano moltissimo l’attività umana, dunque il modo in cui l’uomo si sposta e vive la città, dunque i suoi sentimenti primari, dunque la felicità o infelicità. Nel romanzo, l’architetto Marta Fiani, attraverso il progetto delle città-bioma, persegue l’obiettivo impossibile di costruirne una che, attraverso la forma, la funzione e la percezione, muta il comportamento umano fino a renderlo felice. Il risultato è una città lineare, che si muove su una retta infinita. Ma una retta infinita, per quanto elegante e attraente, presenta dei limiti. Primo fra tutti l’assenza di un vero centro che la rende monotona poiché replica di se stessa. Parallela alla condizione collettiva esiste quella individuale, che si riassume nella ricerca della propria identità, costruita anche e soprattutto sulla memoria. È quello che capita alla protagonista, Diana, che si ritrova a vivere immersa nei ricordi lasciati da Lea, la figlia di Marta Fiani, per la quale però, il concetto di “felicità costruita” è inafferrabile. Lea, a dispetto delle regole, nasconde nella sua vecchia casa, che viene assegnata a Diana, tracce. A Diana spetta l’arduo compito di rimettere insieme i pezzi, in quella che è di certo una ricostruzione dell’io. La scrittura di Elena seduce, in certi punti ferisce, perché infila le mani in quei solchi profondissimi che abbiamo, tutti. In altri odora di disinfettante e ordine. Di piscio. Borotalco. E ancora, disinfettante. Un libro in cui puoi perderti o ritrovarti, che puoi amare oppure no, come accade sempre con le cose immense.
Tundra è forma urbana e collettiva, quella con cui Marta Fiani traduce in strutture architettoniche il progetto di rendere felici gli uomini convinta che questo status passi dall’opportunità di esprimere al meglio le proprie potenzialità in un contesto cittadino in cui ci si sottragga all’indeterminatezza dell’esistenza attraverso l’identità che si incanala nella specializzazione. Essere specialisti di qualcosa per essere e per essere felici, salvo, poi, accorgersi che la felicità è discorso altro da quello di una donna che fa dello spazio e della sua gestione uno strumento di fuga dal tempo, di ascensione divina, una trappola per il medesimo, verso un punto di rinnovamento che, suggellando l’imprescindibilità del presente e l’urgenza dell’oblio del passato, configuri un nuovo orizzonte semplificato. Qualcosa in cui ci siamo tutti e non siamo, perché le singole esistenze valgono meno di niente. Tutto deve avere una funzione, uno scopo e le vite umane si incastrano in una relazione interessata, diretta al soddisfacimento dell’altrui bisogno e alla rilevanza dello sguardo di risposta dell’altro che ci fa esistere e senza cui saremmo inutili e trasparenti. Siamo esseri che ospitano, nutrono e accudiscono insetti che ci scelgono, si avvicinano, si servono di noi e, poi, si staccano, abbandonano la nostra traiettoria, proseguono, mentre noi superiamo il senso di essere stati speciali per qualcuno, il piacere del formicolio indotto, quello celato dietro al dolore accattivante di essere stati usati. Lo sa bene la figlia di Marta, Lea, che impara la fragile consistenza della trasparenza nelle relazioni infantili e adulte, che esiste nello sguardo della madre prima e di Ettore dopo, senza mai potere essere per sé al di fuori del cono ottico dell’altro: il progetto è ciò che conta, ciò che vedi, rilevano le linee utili e necessarie, conti tu, razionalisticamente parlando, l’aspettativa è l’obliqua condizione di chi proietta e si aspetta qualcosa, col rischio di essere delusi e frantumarsi. Ma Lea non è Marta e il punto di vista gioca un ruolo determinante in questo mosaico a tessere impazzite: non è Marta a raccontare la storia e non è neanche Lea, ma una terza persona che vede e scuote la linearità della visuale. Diana occupa lo spazio che era stato di Lea e, pur vittima delle regole di sicurezza ed efficienza di Tundra che le cancella il passato nell’oblio imposto, riesce a vedere, ricorda ancora qualcosa di sé e del proprio pregresso vissuto, mantenendo una parziale salvifica giusta distanza da sé e dall’esterno, tale da farle leggere il tracciato esistenziale di chi l’ha preceduta in quegli spazi oltre le tende rosse e l’armonia generale. Non è lì che si cela l’anima di Lea, ma negli angoli, negli spigoli, nelle imperfezioni dei colori alle pareti, nei cumuli di sporcizia sulle mensole e i davanzali. Racchiusa “solo” in una scatola “piena di tracce odorose e calde” dentro cui si annida “qualcosa di sporco e umido, di vitale”, Lea sparisce, non muore in un’eternità di un tempo piegato alle inossidabili forme dello spazio.
Configurazione Tundra di Elena Giorgiana Mirabelli è il romanzo, edito da Tunué, in cui lo spazio è quel vortice che attira e intorno cui si costruisce un racconto che funziona come una finestra, una sottile, fragile, eppure solida linea di transizione, un bordo tra il mondo esterno, fatto di leggi – di Marta Fiani, l’architetto responsabile del progetto Tundra – da un lato e il desiderio di Lea, la figlia, che, contravvenendo alle leggi, lascia in giro per la casa le testimonianze del suo passaggio e rimandi ai testi della madre. Diana, la protagonista della storia e voce narrante, tesserà un tragitto e una visione nel paesaggio culturale dell’architettura esoterica. Un passo all’infuori, questo andare verso l’esterno, che è pure retrocedere, viaggio all’interno di sé stessa. Un nastro di Möbius: spazio interiore&spazio esteriore; scrivere è un andirivieni, una risacca tra vissuto e finzione. Nel romanzo la scrittura si alterna al disegno e al paratesto in un flusso desiderante che comprende altre forme corporee di scrittura, altri animali, oltre l’essere umano: «Io, nel frattempo, sparisco».