“La vita schifa”, di Rosario Palazzolo
“La vita schifa” di Rosario Palazzolo è l’opposto di ciò che va reso a norma, non strizza l’occhio a nessuno, si fa schietto e dissoluto, sincero e disturbante, contraddittorio e semplice. Non insegue la precisione, perché la bellezza risiede nell’imperfezione: in natura nulla è preciso, tutto procede secondo un ritmo a cui attribuiamo il carattere della precisione rendendolo norma e filtrandolo con lo sguardo inzuppato di mentalismi e criteri, di giudizi e valori, quella zavorra che ci è utile, spesso, in quanto funzionale all’illusione di avere capito e dominato. Se c’è un nucleo fondante qui, è la negazione dello sguardo principe sulla modalità consueta di azione dell’individuo, come se la voce dell’io narrante spostasse altrove l’attenzione: non ci interessa la sovrastruttura con cui l’uomo incasella, valuta in conformità a una presunta norma o etica del caso, ma tutto quello che scorre sotto, quella massa indistinta e caotica, spesso orientata al male, egoistica e benevola insieme, volgare eppure poetica, nella quale siamo tutti quando non abbiamo ancora applicato parametri e non è emersa l’esigenza di mostrarci per quello che non siamo o quando siamo talmente diretti a volerci smascherare che finiamo egregiamente per non essere, in una finzione somma che ci vede interpreti mediocri delle nostre miserie. Ora proprio perché lo sguardo è così rivolto, la struttura del romanzo ne è felicemente travolta, configurandosi come un flusso di coscienza ininterrotto che ripercorre a ritroso l’ultimo anno di vita di Ernesto Scossa che si definisce “un passante” nell’idea pirandelliana che siamo nello scambio e nella relazione, nelle impressioni che suscitiamo, nei giudizi, sebbene, poi, il filtro applicato non possa che risentire dell’identità di colui con cui ci poniamo fuori dalle nostre solitudini dove qualcosa c’è, ci deve essere, oltre un possibile nulla individuale. Questo il senso intimo della narrazione del libro: quel complesso miscuglio di pesi contrapposti, quello spazio dagli alterni paesaggi, dalle roccaforti inespugnabili delle nostre certezze, dalle fratture dei palazzi eretti nel tempo che si aprono alla nostra infanzia, a un giorno, a una delusione, a un riconoscimento, all’adolescenza e ai suoi istinti, all’identità maschile esplosa, schiacciata, fraintesa, umiliata, quella landa anche desolata e ricolma delle tristezze archiviate nel posto sbagliato, una giostra cattiva e sorda dove persino l’accudimento della nostra parte fragile da parte di una madre ci è definitivamente negato. La voce sincera di Ernesto è l’atto più vicino all’idea terrena di Cristo che si possa avere nell’ingenua rappresentazione di ciò che è reale e che necessita, unitamente al nutrimento letterario che lo conforta nella coscienza che gli dona, di non essere il solo per cui “la vita schifa”, di un’abdicazione alla propria intelligenza per non soccombere alla tragedia della vita in cui “non esistiamo l’innocenza” e uccidiamo l’altro, senza ammazzarlo. Anche quando non siamo killer di professione. Come Ernesto.