Una passeggiata con Giovanni Comisso e Goffredo Parise lungo quel filo d’acqua che unisce i Buranelli di Treviso e il lungo Bacchiglione di Padova (e decine di altri paesi dell’entroterra) alle isole veneziane
Fu solo quando si mise seduto in poltrona a tirare un po’ il fiato lasciato per le vie della città, con ancora indosso il paltò, che comprese quello che i suoi occhi avevano veduto, ma che la sua testa non aveva colto. E chissà se per pigrizia o eccesso di evidenza.
Aprì la finestra, si accese una sigaretta e si mise a guardare in basso l’acqua scorrere piano e verde, o almeno così doveva essere perché così era sempre stata, nonostante la notte rendesse tutto di un fosco indecifrabile. Qualche luce in lontananza dorava un minimo la sua superficie, la macchiava qua e là di decori e arabeschi, facendo intravedere così la vera natura dell’acqua, quell’inquietudine tiranna che chissà come e chissà perché riesce sempre a catturare anche la nostra, donandoci quiete e fili di pensieri tirati. Lui lo diceva spesso di essere andato a vivere lì, sul canale, proprio per questo, per rimettere in fila le idee, per avere il ristoro del suono dell’acqua che scorre.
Quel giorno aveva passeggiato tanto, forse troppo. I piedi gli dolevano e la schiena pure, ma solo un poco appena. Prima Verona per una conferenza di quelle che piacciono tanto ai professori, poi, dato che aveva trovato per caso l’amico Goffredo Parise seduto a un tavolino di un’osteria a osservare il nulla, si era deciso di fare quello che da un po’ rimandava. Avevano preso per Padova, avevano bussato alla porta di un amico che se la passava male da qualche tempo e lì avevano parlato, ricordato momenti passati, bevuto un po’ di vino, ma poco, solo per sporcare labbra e bicchieri, ché si sa mai i medici avessero da dire qualcosa a riguardo.
Fu lì, riposti i goti sul lavabo della cucina che dava sul ramo morto del Bacchiglione, che i suoi occhi videro, ma la sua testa non colse.
E non colse neppure dopo mentre col Goffredo chiacchieravano del più e del meno, di ciò che avevano letto e di ciò che avrebbero potuto non leggere, di ciò che avevano scritto e di quello che invece avevano gettato nel fuoco del camino, di vivacità e solitudini. E mentre le loro parole uscivano la Riviera Mussato si esibiva con i suoi bei palazzi con i balconcini in marmo e mattoni o in ferro elegantemente battuto, e le sue strade, che nulla avevano da invidiare a quelle delle capitali che avevano visto. Avevano camminato sulla Riviera sotto l’Osservatorio, s’erano fermati lungo l’argine a maledire di non avere una canna da pesca, ché mancavano a entrambi le attese infinite per pesci che non avrebbero mai abboccato. S’erano fermati a Ponte Barbarigo prima di incamminarsi verso Piazza dei Signori. Ci passava sempre di là ogni volta che si recava in città, perché gli piaceva vedere come pur essendo una bella piazza con un torre con l’orologio, e per di più a Padova, non riuscisse a competere con quella di Treviso.
E ritornato nella sua città, salutò il Goffredo e allungò la strada verso casa pur di passare per la sua Piazza dei Signori. Gli piaceva sbucare da una viuzza laterale, per scorgere il loggiato di Palazzo dei trecento di tre quarti. E da lì tagliarla, oltrepassarla e lasciarsela alle spalle e passeggiare tra i vicoletti che portano alla pescheria e lì pensare a quanto era affascinante un mercato del pesce che sorge in un’isoletta tra le mura di una città dell’entroterra.
Da lì prendeva la strada di casa, quella che costeggiava l’acqua, a risalir i Buranei, il canale dei Buranelli, quello che si chiama così perché luogo di vita per secoli dei commercianti di Burano. Ma a lui a queste cose c’aveva sempre creduto poco e interessato meno. Fu lì, alla milionesima volta che passava lungo i soi Buranei, che la sua testa iniziò a comprendere ciò che i suoi occhi continuavano a vedere.
Di come nella sua terra, nel suo Veneto corresse filo acquatico che legasse Padova, la sua Treviso e decine e decine di altri paesini a Venezia. Ma non alla Venezia dei più, quella che si percorre da visitatori in fuga giornaliera dalla propria routine. A quella dei meno, che si vede solo affacciandosi dalle case, dove quasi nessuno passa, che nessuno attraversa se non su di un barchin o a piedi lontano dai passi foresti e dagli occhi in cerca di palazzi e monumenti da osservare. La Venezia dei palazzetti un po’ sdruciti che si immergevano nell’acqua e che sembravano galleggiare su di essa, che richiedeva occhi smaliziati per apprezzarla davvero.
Giovanni Comisso si disse che prima o poi ne avrebbe dovuto scrivere di tutto questo. Che era uno spunto bello, uno di quelli che potevano essere il via per qualcosa. Ma non certo quella sera, ché la sigaretta era finita, la stanchezza era molta e che alla sua età mica era consigliabile fare le ore piccole chino su di una macchina da scrivere.
Giovanni Battistuzzi
Tratto dall’omonimo articolo pubblicato su Il Foglio il 15 novembre 2020
Immagine in evidenza: il canale dei Buranelli a Treviso (foto Wikimedia Commons)
Giovanni Battistuzzi, al Foglio dal 2014, è nato nel giorno più freddo del secolo scorso, lì dove la pianura incontra il Prosecco. Insegue. In libreria trovate “Girodiruota” e “Alfabeto Fausto Coppi”