In tempi in cui si abusa delle parole, più per il potere e la seduzione che sprigionano che non per l’attenzione e l’adeguatezza che reclamano, ci si chiede quale sia la parola, o le parole giuste, con cui parlare (e scrivere) di donne, fosse anche per rigettare la definizione che guarda al mondo femminile secondo modelli di comportamento e di condotta morale che rispondono a esigenze di riproduzione, accudimento e customer satisfaction.
“Le parole sono importanti”, affermava il personaggio di Nanni Moretti nel film Palombella rossa, sono come dispositivi di allarme, aggiungo io. Così, Elisa Ruotolo, scrittrice raffinata, delicata, attenta a non cadere nella trappola dei lessici forti, dà prova di una scrittura indugiata e responsabile che scaturisce dalla naturale predilezione all’eleganza, forse anche, dall’intento di riscoprire una grammatica emotiva misurata – ma potente-, un ritorno al tatto lessicale, all’epurazione delle tante forme di eccesso, e alla profondità di espressione che si sono perdute nell’immediatezza del linguaggio quotidiano e nelle forme scritte.
Perché parlare e scrivere di donne lo si fa troppo spesso con un’abbondanza di sguardi, con una golosità eccessiva, prendendosi la licenza di “guardare” al corpo femminile come un allestimento permanente; perché quando si parla di libertà o emancipazione o indipendenza, qualunque forma e voce assumano le piccole rivoluzioni che si compiono contro certi stereotipi famigliari e sociali, è d’obbligo percorrere la strada della pratica e dell’azione, come pure quella linguistica, lessicale, discorsiva. E in una prova narrativa, come nella vita vera, l’accumulo rischia di ottenere l’effetto contrario, disturbante e indesiderato, mentre avanza il sospetto che si scriva più per soddisfare una moda che punta al clamore della parola smaccata.
Lo sviluppo narrativo di Quel luogo a me proibito si fa ineccepibile lì dove non cede alle attese di una performance esagerata, alle parole appesantite dalle aspettative, ai colpi di scena sensazionali, mentre se ne apprezza l’accordo calibrato lessico – intreccio, svelamento – immaginazione, voce e ritmo, unicità e immedesimazione che sono i meriti più vistosi del romanzo.
Quel luogo a me proibito è anzitutto la testimonianza di chi riconosce a fatica, ancorché il bisogno e la forza, il dramma personale che scaturisce dal reclamare il sé corporeo e carnale in una rappresentazione individuale ed esclusiva che urta con quella impartita dal giudizio e dalla educazione famigliare. La storia di una donna dal karma educato alla vergogna e all’ubbidienza, dalla personalità scissa e in crisi con sé stessa, che attraversa i muri della memoria – non sempre conscia ma contaminata dall’immaginazione – per rinvenire, nel segno costante di una violenza volta a mortificare il luogo-corpo di donna e a ridurlo a uno spazio di sudditanza, segregazione, invisibilità, le stigmate della sua adulta inadeguatezza.
“Il corpo era un animale da tenere a bada – sembrava dirmi mia madre; a catena- avrebbe corretto mio padre.”
“Capii allora che dall’occhio degli altri al castigo proveniva una specie di sollievo. Bastava non dare appigli, rimanere nel gregge, obbedire al cane e al bastone e a sera rientrare nell’ovile”
“Hai le tue cose? mi chiedevano, e se annuivo sentivo aggiungere, “allora fatti in là che mandi a male tutto.”
Che sia un marciapiede occupato dalla prostituta appena fuori il paese, una casa, una camera da letto, l’abitacolo di un’auto, il terrazzo – cuccia di Rambo, o un corpo, si parla di spazi viventi riservati, resi invisibili, violati, e di come idealmente starci dentro, o starci fuori, e di un viaggio per raggiungerli e sconvolgerli.
Un romanzo che mette in scena con grande potenza espressiva il dramma del desiderio e l’impulso – doloroso e incerto – al cambiamento, quando stare al mondo passa per forza di cose dalla distruzione e l’annientamento dei modelli di comportamento socialmente accettati, alla rinascita di un sé vivo e libero, s-catenato, s-vincolato, e per dirla con Chiara Gamberale, s-legato.
Mio padre non sapeva regolarsi come non aveva saputo fare il suo rispetto alla donna del colombario: lei era stata quasi un piccolo animale tra le mani di mio nonno: un vivente depositato presso il camino e completamente alla sua mercé: un essere incapace di ribellione al pari di Rambo che non aveva mai abbaiato aveva sempre mangiato tutta la scodella di cibo che gli portavamo e ogni notte si era arrangiato a dormire sul sacco di iuta senza tante storie.”
Ma si parla anche di luoghi come porzioni di tempo (anche generazionali) che restituiscono l’immagine e la misura di chi non siamo già più, il paradosso di uno scarto verso il mondo (im)pudico degli altri, e per questo, luoghi-tempo anche di cura e di esodo, in cui riappropriarsi della libertà e dell’individualità diventa persino meno doloroso della consapevolezza di poter rimanere intrappolati dentro gabbie frigide e mortificanti.
È quanto accade alla protagonista quando un urto di vita, una specie di trasfusione fascinosa di disinibizione e carnalità, la invade dandole la certezza di non aver vissuto mai abbastanza e mai liberamente: l’incontro con Andrea, lui, l’amore “sbagliato”, il desiderio primitivo che le chiede di spingersi oltre, di varcare anfratti taciuti, a cui lei rinuncerà, ma a partire dal quale, la via del cambiamento è già segnata.
“Ho sempre faticato a desiderare, e quando l’ho fatto ho dato al mio bisogno un perimetro entro cui restare. L’ho capito quando ho incontrato lui che se vuoi veramente una cosa non dovrebbe importarti del dolore che c’è nel mezzo, pur d’arrivarci. A me invece importava: avevo come un difetto del desiderio che non sapeva spingersi abbastanza lontano da perdersi.”
“La mia vita si spaccò in due e ogni metà implorava di essere vera. Certi giorni ero la figlia rispettosa dei silenzi di casa, in altri diventavo la donna che andava a consumare lontano l’infinito chiasso che si portava dentro. (…) Preferii dare a ciascuno ciò che chiedeva, non riuscendo a sacrificare né a deludere.”
Alla storia tormentata con Andrea, da leggere in termini di sacrificio e rinuncia, si intreccia il ritorno di Nicla e l’avvento di una amicizia nuova, pronta a sostituirsi a quella segnata dal pregiudizio. Un finale con un happy end solo a metà che più coerente di così non si poteva, dove si intuisce che il dolore può diventare il motore del cambiamento, che l’infelicità va ascoltata e sfruttata perché non si perpetui a oltranza, e che puntare verso una via di uscita è un dovere che dobbiamo verso noi stessi, e nessun altro.
Un racconto la cui forza è racchiusa nella saggezza delle parole che puntano dritte ai luoghi, che portano ai contenuti e oltre, e che Elisa Ruotolo padroneggia senza mai contrarre il morbo della superbia, ma con umiltà e potenza di immaginazione.
Paola Milicia
L’Intervista
Paola Milicia: Come si racconta oggi la vita di una donna alle prese con il racconto del proprio corpo e degli impulsi carnali, evitando il rischio di cadere in retoriche di genere incise nei dibattiti di questi ultimi tempi, da una parte, e tentando di condurre un discorso verso l’affermazione della libertà sul proprio corpo, dall’altra?
Elisa Ruotolo: La scrittura, per me, è il luogo dell’abbandono. Sono molto riflessiva, direi ragionante, nella vita ma quando mi siedo a scrivere lascio andare il morso, la briglia si allenta e forse divento ciò che nell’allerta del quotidiano provo continuamente a correggere. Quando scrivo, insomma, entro nello spazio della disobbedienza. Con questo romanzo non ho calibrato il tiro, non volevo affrontare un dato argomento, tantomeno insegnare o trasferire un messaggio: volevo soltanto essere onesta e raccontare (con la maggiore dose di limpidezza e bellezza) quanto sia difficile essere fedeli a ciò che profondamente siamo; esserlo senza soccombere a infinite manipolazioni (familiari, sociali, ambientali, epocali, ma anche personali perché auto-inflitte). Raccontare oggi il proprio corpo e il proprio desiderio non so se sia meno difficile che in passato. L’individualità, nonostante le reiterate battaglie per liberarla, resta tale e su ciascuna preme un vissuto, un bagaglio originario e originale. Essenziale nel mio caso è stato entrare nella psicologia altamente turbata della mia donna bonsai, provare a darle una voce senza filtri e una totale nudità di pensiero.
Parliamo di parole, di idiomi, di lingua, di gerghi: la protagonista, tra le altre cose, avverte un’esitazione linguistica che la taglia in due, sospesa tra origine e tempo presente che coincide con una lingua perfezionata, sanificata. Come se anche l’esperienza dell’origine dovesse subire altrettante mortificazioni inflitte alla carne. Qual è il legame tra corpo e forma nel romanzo?
Sì, la protagonista avverte l’esigenza di staccarsi dal proprio mondo originario e il primo, inconsulto movimento di ribellione riguarda la lingua. Interverrà con molta attenzione sul lessico e la fonetica del suo parlare di bambina; in tal modo avrà la netta impressione di aver operato almeno una fuga nelle parole, visto che il corpo resta saldamente annodato alla famiglia. È il solo modo che trova per agire sulle origini, quasi una mortificazione di ricambio rispetto a quella patita dalla carne. Nel romanzo si è continuamente in bilico tra profondità e superficie, tra corpo (come verità pura, profonda, istintiva) e forma. Nel rapporto con Nicla, (la compagna di classe che rappresenta lo specchio e la diversità radicale), si parla esplicitamente di contrapposizione tra “significato e significante”. La mia donna bonsai è per lo più forma, esteriorità ostentata per molti anni. Nel corso di essi è diventata non ciò che desiderava e sentiva di essere, ma ciò che l’avrebbe resa una ragazza e poi una donna perbene, mai chiacchierata, sempre ubbidiente. Questa maschera, tuttavia, non corrisponde all’intimità di cui solo il corpo, nel suo desiderio di contatto col mondo, resta a dare notizia. Tutto il romanzo è un percorso faticoso: quello di una donna che sguscia fuori dal simulacro in cui ha creduto di poter esistere, per arrivare ad abbracciare la propria reale natura, il proprio istinto, senza considerarlo bestiale.
Il personaggio: è una figura concreta quanto comune per non essersi sottoposta a dei lifting emotivi, a delle cure di felicità a tutti i costi, che si muove dentro un vissuto quotidiano e misurato, incerto e tormentato che la rende vicina ai lettori. Come nasce? Cosa te l’ha consegnato?
Lei è quanto di più prossimo io abbia saputo immaginare per descrivere un disagio privato. Volevo raccontare l’imperiosità di certe mutilazioni, quelle a cui ci sottopone l’amore (nelle molteplici forme in cui può manifestarsi) e quanto spesso preferiamo obbedire anziché praticare la fatica della scelta. Il personaggio è nato in un tempo di grande spaesamento, di interrogativi pressanti e mi è sembrato che, a un certo punto, nel suo restare senza nome, nel suo dolore così palpabile e condivisibile, potesse rappresentare l’umano, non un singolo individuo. Perché essere amputati, manipolati, costretti a diventare altro, e di più, combattere con i propri nodi interiori è qualcosa che riguarda tutti, nessuno escluso. La mia donna bonsai non si sottopone a lifting emotivi, affronta la sua condizione esistenziale refertandola come potrebbe fare un medico. Nel raccontare questa vita mi è sembrato di capire ulteriormente la ragione per cui si scrive: forse per conservare la memoria di ciò che siamo, che poi è memoria del mondo, dell’universo intero. Il mondo, l’universo – altrimenti – non avrebbero ricordi.
La forza del romanzo è anche nella prospettiva cinetica con cui si guarda alla storia in termini di colpe e responsabilità. Mi pare di percepire un giudizio non sempre univoco sulla protagonista: quanto è vittima e quanto responsabile delle sue scelte, del suo stare al mondo (considerando anche quella sua specie di mitologia personale fatta di paure e fantasie che la fa allontanare dalla vita vera)?
Non vi è un giudizio univoco, è vero, perché è impossibile e illegittimo giudicare. Perché ogni volta che lo facciamo, sacrifichiamo una prospettiva che potrebbe essere altrettanto valida. Ho vissuto abbastanza per sapere (il livello di comprensione non è mai questione anagrafica) che un taglio netto, una visione che non accolga la contraddizione e che emargini ogni elemento di problematicità, siano il male peggiore. Non siamo mai completamente colpevoli, né pienamente innocenti. Quindi la mia donna bonsai è vittima di un determinismo familiare feroce, ma anche colpevole di non aver forzato il recinto in cui era stata costretta per anni. Su tutto, come un deus ex machina, aleggiano la paura e la vergogna, sapientemente inoculate per dare man forte al senso del proibito. La prima quando diventa una modalità imprescindibile dello stare al mondo, impedisce e frena con un meccanismo quasi automatico. La seconda pone il giudizio altrui come unico paradigma legittimante. Nel romanzo a un certo punto si dice “sii perbene: conta più dell’essere felici”, che credo riassuma la prospettiva angusta del microcosmo familiare raccontato. Tuttavia, Quel luogo a me proibito è soprattutto la storia di una rinascita ancora possibile, di una iniziazione alla vita e al desiderio quando tutto sembra deciso, perduto. La mia donna bonsai, nel suo difficile cammino verso l’innocenza vera (non quella alterata e suggerita dai fantasmi familiari), scopre quanto sia impossibile disconoscere la propria reale natura, quanto inutile tenerla a bada, quanto ingiusto (quasi immorale) lasciarsi guidare da chi è a sua volta vittima di castrazioni che vengono da lontano e ci precedono.
So che sei un’appassionata di fotografia e che qualche tuo scatto è stato pubblicato sulla rivista online Vogue. Cosa cerchi nella fotografia e cosa nella scrittura?
Sì, la fotografia è una passione recente, e un’ulteriore modalità di espressione. È essa stessa – anche in senso etimologico – una forma di scrittura. Invece delle parole utilizza la luce (e la sua assenza), e io credo di amarla anche per questo. Dico “anche” perché in realtà ho trovato innumerevoli connessioni tra lo scrivere e il fotografare: in entrambi i casi l’autore non resta fuori da ciò che ritrae, crea anzi un legame indissolubile con il soggetto; e poi perché la fotografia comporta una scelta continua, e nel praticarla educa il mio sguardo, la mia capacità di messa a fuoco. Che tu decida di fotografare o di raccontare (quindi in modo rispettivamente più istantaneo o più meditato), ti troverai davanti a un’esigenza: tralasciare il superfluo “cancellando la realtà”, come diceva Ghirri. In entrambi casi è sovrano il potere dello sguardo nella sua capacità di salvezza o di abbandono, nel suo bisogno viscerale di creare una realtà che è altro rispetto all’esistente. Ora so che una rosa fotografata o raccontata da dieci persone diverse sarà dieci volte differente, e questo resta il più incomprensibile e affascinante degli enigmi. Cosa sto cercando? Forse di smarrirmi rispetto a una realtà in cui non trovo dimora.
Immagine in evidenza: foto di João Jesus da Pexels