In genere tutto è triste in un albergo, Ma chi è più triste è il portiere di notte. Gli occhi di quest’uomo che del sole vede soltanto i primi raggi, hanno tanta asprezza da sembrare di vetro. Ora, nell’albergo dove mi trovavo, io non ebbi mai il rimorso di vedere questi occhi a notte tardissima, svegliati di soprassalto dal mezzo assopimento, al trillo dannato del campanello dell’ingresso, ma li vedevo al mattino verso le sei, alle prime luci del giorno, e li stupiva la mia levata mattiniera, rispetto a quella degli altri ospiti. La prima volta soddisfeci la sua richiesta col dirgli che andavo a vedere il mercato dei fiori ed era vero.
Le strade tra le mura dei giardini, da cui traboccavano acuti nel profumo i fiori e irruenti le raggiere delle palme nell’aria marina umida e tiepida, avevano una fermezza di sogno. Poi sotto al capannone trovai la gente e le grandi ceste fiorite addensate: informi e inafferrabili. Per prima cosa mi accorsi come i fiori raccolti a migliaia finiscano col dare un odore disgustoso di fermento, poi come un intimissima relazione epidermica passasse tra i fiori e la gente che li maneggiava. Avevano una delicatezza straordinaria nel muoversi e una timidezza eccessiva nell’offrire la vendita, e i loro volti nel bruno del sole sfumavano rossi in accordo con un improvviso azzurro negli occhi. Il capannone da stazione ferroviaria, i fiori abbassati ad un livello di pura merce, le carte dei giornali sparse dappertutto, dando un senso di fastidiosa sporcizia, i camions e le automobili dove stavano stipati. Mazzi in attesa di essere rapiti via per altre città, finirono col non accrescere per nulla la mia simpatia per i fiori.
Del resto qui in questo paese della Riviera ligure, subito dai primi giorni l’abbondanza, l’insistenza dei garofani in qualsiasi luogo che entrassi, bar o negozio, avevano finito col rendermi incredulo e diffidente come davanti a fiori artificiali.
Passai così verso il porto deciso di riguadagnare la levata mattiniera. Nel piccolo porto l’acqua pesante contrastava appena con le pietre; alcuni velieri e barche parevano posare su di una lastra di ghiaccio e l’immagine che si provava riesciva insoffribile col tepore fermo dell’aria. Guardavo lo specchio opaco e la costa dove sotto ad una vasta fumea di nebbia, che si sollevava, risaltavano nitidi i muriccioli delle fasce dove si coltivano i garofani, quando dietro a me intesi delle voci straordinariamente portate dall’aria. Dietro a me vi era un vecchio forte con alcune finestre interamente coperte da grate di legno verde. Le voci venivano da quelle finestre. Risuonavano nell’interno come dentro ad una grotta. Erano calde e violente, ma qualcosa di affettuoso le smorzava. Mi feci più vicino. Una dominava le altre e diceva: “A me me l’ha detto il carabiniere che ci sarà l’amnistia per l’Anno Santo”. D’improvviso tutte si tacquero di fronte ad un suono come di timpani, Dato da un ferro battuto salterellando su di altri. All’angolo della prigione era apparsa la guardia d’un aspetto così fosco nel volto che pensai più crudele di quello dei reclusi, e mi allontanai.
Ma la seconda volta che il portiere di notte mi vide lasciare l’albergo di presta mattina, mentii alla sua stupefatta richiesta: “Non ho mai visto cosa più bella del mercato dei fiori, tutte le mattine fino a quando rimarrò qui mi alzerò a quest’ora”. Per quella cointeressenza che il personale degli alberghi ha col movimento turistico del luogo, il povero uomo nel pallore della notte insonne rivelava un attimo di lieta compiacenza per il mio entusiasmo. Andavo invece ogni mattina sotto alle mura del forte ad ascoltare i prigionieri a parlare fino a quando non ricominciava il silenzio, colla verifica delle inferriate, tremula come un suono di timpani.
Il portiere di giorno è un altro povero infelice. Egli può alla notte dormire tranquillamente nel suo letto, ma al giorno lo ripaga la petulante insistenza dei clienti annoiati che gli sottopongono da risolvere le più svariate questioni, di orario, di tassazioni di lettere, e richieste sul servizio postale, sugli omnibus per gite nei dintorni, sui biglietti teatrali; se la tale persona è uscita o no, spedizioni di bagagli, cambio di monete, arrivo dei giornali e mille altre cose a cui egli deve rispondere nelle quattro principali lingue del mondo. L’uomo in genere resiste, senza un minimo scatto, alla tormentosa insistenza perché è di razza dura. Ora costui aveva saputo delle mie uscite mattiniere dall’albergo, perché avvertito dall’altro nel passargli le consegne; e nel vedermi ritornare mi accoglieva sorridente, e dubitoso mi chiedeva: “Si è divertito al mercato dei fiori?”.
Ora l’ultimo giorno della mia permanenza si doveva svolgere nell’albergo un grande e pomposo ricevimento con banchetto e discorsi in onore di tutti gli artisti che avevano avuto la compiacenza di soggiornare in quel magnifico paese. E proprio non mi sentivo di partecipare, sebbene fossi stato assai premurosamente invitato. Gli artisti sono come i fiori, presi singolarmente possono avere un dolcissimo profumo, ma ammassati, specie poi attorno a una tavola, danno un disgustoso odore di fermento. Quindi ricorsi al simpaticissimo portiere di giorno e gli diedi l’incarico di avvertire il Comitato che un urgentissimo impegno mi aveva richiamato fuori di città. Il portiere nel ricevere la commissione mi guardò con malizia: “Scommetto che lei prima di partire va a vedere il mercato dei fiori del pomeriggio”. E aveva tutta l’area di dire: “Indubbiamente lei ha trovato qualcosa di buono”. E uscii.
La mia vera intenzione era di buttarmi un po’ su verso le colline, che sempre avevo visto dal mare durante i quindici giorni di soggiorno e mai avevo avuto il coraggio di passeggiarvi. Si diventa così pigri nei paesi marini! Infilai il primo viottolo ed era una bellezza salire, il cielo era tutto fremiti di vento nella limpidezza profonda, gli eucalitti dai giardini agitavano tutte le loro foglie. Il viottolo saliva a gradini facili e dolci e più su mi accorsi che da una parte e dall’altra vi erano fitte e grigie le piantagioni di garofano, qualche donna o ragazzo vi raccoglievano i fiori, delicati e leggeri come irreali.
Più avanti preso dalla tentazione spinsi un cancello e penetrai tra le fasce fiorite dominate da una casa bianca. Subito mi incontrai con un signore asciutto, bruno nel volto per il sole, cosicché risaltava il grigio dei suoi capelli, che mi guardò sorridente attraverso gli occhiali. Egli era più che il padrone di quelle fasce, egli era uno dei nostri più famosi coltivatori e creatori di nuove varietà di piante: a lui apparteneva il segreto delle più pregiate ibridazioni di rose e di garofani, e subito con lo stesso estro con cui sa portare il polline di un fiore sugli stimmi di un altro, egli volle spiegarmi un’infinità di cose che non sapevo: “Vede – egli mi disse avvicinandosi ad un cespuglio di fiori odorosi – questo petalo eretto si chiama stendardo, questi laterali: ali, e questi formano la chiglia”. Poi passammo attraverso una vasta fascia dove le varietà di garofani si addensavano a migliaia: “Tutte queste qualità non sono ancora sul mercato e sono state composte da me; quando io cammino tra queste piante le osservo e mi pare che mi richiamino, che un bel garofano d’un rosso vivace mi dica: – Io vorrei dare il mio polline a quello lontano tutto bianco: aiutami. – E allora prendo le mie pinze e compio l’ibridazione. Si fa così”. Colse un fiore, lo spaccò isolandone gli stimmi e le antere: “Prima bisogna castrare il fiore che si vuole ibridare per impedire l’auto-fecondazione e gli si tolgono le antere prima che si aprano, poi si esegue l’impollinazione cogliendo il polline da un altro fiore prescelto posandolo sugli stimmi. Allora interviene la natura col suo arcano: il polline viene assorbito, penetra nello stilo e giunge all’ovario. Se la fecondazione ha avuto luogo, entro ventiquattro ore il fiore avvizzisce. Io sono sicuro che i fiori mi conoscono, quando io passo tra loro li accarezzo e i loro boccioli protesi li stringo come fossero le loro mani”. Camminava e nello stesso tempo coglieva qua e là gli esemplari più belli. Gli chiesi se non provava dispiacere a reciderli: “No, la natura li ha fatti per coglierli e la pianta migliora staccandosene”. E mi guardò sorridendo quasi che colla mia domanda avessi voluto scherzare. “Ma guardi, essi sono veramente come gli uomini: ce ne sono di belli e profumati (il profumo qui corrisponderebbe all’intelligenza) ed altri goffi e sciocchissimi, guardi questo che non sa proprio di niente, un vero cavolfiore, guardi che aspetto da ignorantone”. E continuava a raccogliere. Giù il mare fremeva azzurro. Quando ebbe raccolto un grande mazzo lo protese verso di me e me lo offerse. Non un garofano assomigliava all’altro: grandi e variopinti, grandi e di tutte le varietà del rosso o tutti bianchi e i petali o roteanti o spieghettati con ardore: “Sono ancora tutti da battezzare” mi disse accompagnando il dono. E ci lasciammo. Discendevo correndo sicuro di avere tra le braccia la più preziosa cosa di questo mondo. All’albergo il portiere di giorno sbarrò tanto d’occhi vedendomi apparire con tutti quei garofani. Gli cadeva la illusione che egli si era fatta sul mio conto: “Lei ha proprio svaligiato il mercato” mi disse e senza lasciargli il tempo di accorgersi che qualità simili non si sarebbero trovate sotto al lugubre capannone mi ritrassi col tremante tesoro nella mia stanza.
Giovanni Comisso
da Gazzetta del Popolo del 08/06/1933 – Anno XI
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