Portarono un camion coi parafanghi d'oro

Portarono un camion coi parafanghi d’oro

Di recente ascoltavo alcuni miei amici che avevano vissuto in Africa al tempo della guerra con l’Abissinia. Pareva che dopo vent’anni, quella cronaca di ricordi fosse giunta al momento di diventare storia di incredibili leggende. Canuti e scavati al volto dagli anni, con amari sorrisi essi stessi, presi oramai da abitudini pacate nel giro della vita quotidiana e borghese, non credevano di essere stati protagonisti di quegli avvenimenti lontani.

La conversazione era tutta intersecata da continui: “Ti ricordi?”, come pugni battuti alla porta del passato per dischiuderla. Cominciarono col ricordare quando andavano a prendere l’aperitivo nel caffè Croce del Sud, ad Asmara, e lasciavano indifferenti cinquecento lire di mancia: allora. Poi ricordano certe donne, arrivate con salvacondotti di personalità politiche, alle quali era bastata una notte di piacere per fare quella fortuna sperata prima di partire e ritornarsene subito a casa. Quante altre donne, sposate per procura, vennero importate in colonia per instradarle alla prostituzione col preambolo, appena arrivate, di una prestabilità scoperta in flagrante adulterio con relativo ricatto. Dopo un iniziale esperimento della donna di colore, il grande desiderio si era travolto verso le nazionali e non si badava alla spesa. La prostituzione ufficiale era in mano di favoriti che l’avevano organizzata con esclusiva, per conto del Governo. Gli affari di questo genere andavano come tutti gli altri guadagni folli, per questo si cercavano vie traverse per concorrere in quel traffico. In certi paesi improvvisati con baracche di legno, la sola casa in muratura e decorosa non era quella delle scuole, come si faceva vedere nel Film Luce, ma il postribolo. Avevo accennato a quello che ci toccava di mangiare laggiù.

Gondar – donne Amara – Collezione cartoline Albertomos (Wikimedia Commons)

Il risotto del generale

Generale Guglielmo Nasi

Durante il mio soggiorno ad Harran, quasi come una liberazione dalla Trattoria Torinese, dove mangiavo la pasta asciutta in bianco per vedervi meglio le mosche, mi venne l’invito di una colazione presso il generale Nasi, che era il governatore. Ma quando i camerieri negri, vestiti con magnifici costumi harrarini, portarono un profumato risotto, scorto un segmento roseo che poeticamente pensai fosse di cipolla, dovetti poi convincermi che era un verme. Allora uno dei miei amici ricordò certa pasta e fagioli di Senafè. Giunto a questo villaggio, dopo seicento chilometri di autocarro, aveva visto in una trattoria un avviso che vi si poteva mangiare subito quella pietanza tanto gradita ai veneti. La trattoria era illuminata da lampade petromax, che diffondono molta luce attorno, ma creano una zona scura di sotto in rapporto col recipiente. Quel mio amico si era seduto a un tavolo e la zuppiera gli venne messa proprio nella zona in ombra, avidamente consumo la prima porzione e ne ordino subito una seconda tanto era eccellente.

I cercatori d’oro

Venne un altro suo compagno, ordinò anch’egli la stessa zuppa che gli fu messa nella zona in luce, ma al primo cucchiaio gridò all’altro di fermarsi: nereggiava di mosche. Andarono in cucina per protestare e videro che dalla grande pentola sul fuoco, ogni volta che il cuoco negro toglieva il coperchio per rimestare, si sollevava una colonna di fumo che salendo fino al soffitto vi succhiava tutte le mosche appiccicate facendole precipitare.

Quel mio amico, da quando era giunto in Africa, s’era messo in testa di scoprire una miniera d’oro, non di quelle miniere già in funzione, dove il costo per ricavare un grammo di oro era dieci volte superiore al valore di quel grammo in qualsiasi mercato del mondo. Egli sapeva che non avrebbe potuto mettersi a scandagliare le sabbie dei torrenti, ma doveva nei suoi lunghi viaggi nell’interno osservare se gli indigeni portavano gingilli d’oro e pazzi com’erano per il vino in cambio di questo farsi indicare dove era il giacimento. Durante i primi mesi di guerra assunse l’incarico di portare i rifornimenti ai fortini avanzati nella zona di Gondar.

Soldati italiani dopo l’occupazione di Gondar, La Tribuna illustrata del 19 aprile 1936 (Wikimedia Commons)

Il vino del camionista

Arrivato a uno di questi fortini, vide un negro che aveva una catenina d’oro al collo, seppe che era il capo di un villaggio nella zona ancora da conquistare, situato molti chilometri più avanti. Gli fece vedere una botte di vino che teneva sempre di riserva per il suo scopo, e decise di andare con lui al villaggio. Gli ufficiali del fortino lo sconsigliavano per il rischio di lasciarci la pelle, ma egli aveva la febbre dell’oro e per piste appena segnate se ne partì. Prima del tramonto giunse vicino al villaggio, tutti i negri vennero a incontrarlo, fece fermare l’autocarro e, scaricata la botte, i negri la sospinsero verso la capanna. Era tale la loro frenesia che finivano col seguirla rotolando sulla pancia e andando a gambe all’aria. Ma con sua disdetta nessuno di quei negri portava alcun segno di oro. Erano negri orrendi, che non avevano mai visto un bianco e, nel vano tentativo di stabilire un dialogo per scambiare quel vino con qualcosa d’altro, gli si erano fatti attorno stringendo sempre di più il cerchio per la curiosità di osservarlo. Scesa improvvisamente la notte è preso dalla paura aperse la giacca, mostrando le due pistole che teneva la cintura e con le quali non aveva mai sparato un colpo. Sempre facendo grandi gesti come di saluto, abbandonò a loro il vino e camminando all’indietro retrocesse fino al l’autocarro e fuggirono.

Castelli di Gondar (foto di Bernard Gagnon, Wikimedia Commons)

Al ritorno a Gondar che era ancora notte, giunto al posto dove aveva la sua baracca, non riesciva più a orizzontarsi, non vi era più né la sua baracca, né le altre. Si accorse che camminava su di un terreno coperto di cenere, un suo dipendente venne a dirgli che tutto quel quartiere si era incendiato ed era riescito a salvare solo le sue babbucce. Provvisoriamente trovò alloggio in una baracca che doveva essere demolita per fare un cinema. Dopo qualche tempo il padrone gli disse che doveva andarsene, perché sarebbero cominciati i lavori, ma egli lo pregava di aspettare fino a quando avrebbe potuto sistemarsi altrove. Una mattina si svegliò col sole che gli batteva sugli occhi e si accorse che la baracca era stata demolita e lo avevano lasciato nudo sulla branda con tutta la gente che lo guardava e rideva. Ora rideva anch’egli come nelle avventure di una sua seconda giovinezza.

Il commercio del sapone era tra i più fortunati. Uno di loro disse che da quando si era messo a venderlo, senza badare alla qualità, lo vendeva tutto a un prezzo e non ci perdeva mai. Andava via con l’autocarro carico di casse per quelle strade che si arrampicavano attorno alle ambe e un giorno incrociò con l’autocarro di un altro amico che commerciava pure in sapone e non vedeva da tempo.

Banconota da 100 lire per uso esclusivo nell’Africa Orientale Italiana

Biglietti da mille e follie

Dapprima non si riconobbero, tanto erano trasfigurati, e siccome questi non gli dava spazio, prese a inveire contro di lui e discesi dalla cabina già stavano per pigliarsi a pugni. Riconosciutisi tramutarono l’ira in ripetuti abbracci, ognuno di loro reggeva nello stesso tempo la borsa dove avevano tutti i loro guadagni, quando queste si apersero al vento che spirava tra quelle ambe i biglietti da mille presero a volare come avvoltoi. Tale era la gioia di rivedersi che si lasciarono andare, preoccupandosi solo di raccogliere quelli che erano rimasti a terra. Come smise di raccontare fece tintinnare le lirette d’oggi che teneva in tasca con un lieve rammarico. Erano folli e il denaro aveva il valore sfuggente come per i giocatori alle vincite insperate.

Porto di Massaua, 1939 (Annemarie Schwarzenbach, Wikimedia Commons)

Allora da un altro mi venne raccontata questa fantastica storia che riguardava ancora il sapone e faceva ripensare alle storie di Jack London sull’Alaska al tempo della scoperta dell’oro. Appena incominciata la guerra, quando le importazioni erano cessate, due amici veneti avevano avuto notizia che in porto a Massaua vi era un piroscafo germanico carico di noci di cocco che andavano a male; pensato che con quelle avrebbero potuto fare dell’ottimo sapone, comperarono tutto il carico e si rifecero della spesa e del trasporto ad Asmara, rivendendo i sacchi di juta che contenevano quelle noci. Col sapone ricavato fecero tali guadagni che non sapevano come collocare tutta la moneta in carta incassata: non si fidavano di metterla alla banca perché vi era la guerra, e allora si diedero a comperare tutto l’oro che trovavano in vendita.

Il Veneto non è l’Africa

Sazi dell’Africa, finita la guerra, decisero di ritornare in Italia, ma non sapevano come portare tutto l’oro che avevano, essendo proibita l’esportazione. Infine ebbero l’idea di fonderlo e fare due grandi parafanghi per il loro autocarro e verniciati bene si imbarcarono per Genova. Arrivati in Italia, le autorità portuali non permisero lo svincolo dell’autocarro, perché non era in regola per l’importazione e lo trattennero in dogana con non poca ambascia dei due proprietari che temevano che una sola scalfittura dei parafanghi rivelasse l’oro nascosto. In fine vennero a sapere che lo svincolo era concesso solo se l’autocarro veniva demolito come materiale ferroso. Così lo sfasciarono e portarono in salvo i parafanghi che vennero tramutati in settanta milioni. Ritornati al loro paese, visto che l’affare del sapone aveva dato a loro la fortuna, pensarono di rimettersi a produrne ancora, ma il Veneto non era l’Africa e in pochi anni i settanta milioni si sciolsero come tante piccole saponette.

Giovanni Comisso

da Il Giorno del 04/10/1956

Immagine in evidenza: Italian army truck Fiat 666 NM and Fiat 626 NLM tanker with a trailer on the highway in northern Africa (fonte: Pinterest)

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