In una sua vita, Francesco Petrarca dice: « Tenue vitto usai ». Alle sue cene non gli importava il cibo, ma di avere amici che lo confortassero e sempre li ebbe. Io potrei sottoscrivere questo come mio desiderio. Nella mia vita non furono mai importanti le mangiate, ma la qualità degli ospiti alla stessa tavola.
Vado un poco disordinatamente. Quando fui in Cina, a Pechino, ebbi la ventura di trovare Nunzio Apostolico Don Celso Costantini che era veneto anche lui e mi invitava alla tavola della Nunziatura a mangiare il riso con i piselli alla veneta e al mio apparire diceva: «Tra quattrocento milioni di Cinesi vi sono due Comisso, uno è il mio segretario, l’altro è un inviato speciale e sono entrambi alla mia tavola».
Essere alla sua tavola significava parlare di storia e di estetica. Egli trovava che il popolo cinese era il più adatto a diventare cristiano e non si doveva considerarlo come un popolo coloniale.
Aveva una forte ammirazione per D’Annunzio come artista e mi riportava i colloqui avuti con lui ad Aquileia durante la guerra all’ombra dei cupi cipressi. Sapeva quanto era peccaminoso, ma tutto gli perdonava come artista più vivo del tempo.
Quando fui a Fiume una sera riuscii a fare liberare un aviatore che era venuto da Roma e che le truppe che ci accerchiavano avevano arrestato.
D’Annunzio mi aveva invitato a mangiare con lui perchè voleva sapere come avevo fatto. Nel guardarmi acutamente, mi risultava la sua testa ancora più calva e cerea, e lo guardavo con una certa meraviglia; allora egli mi raccontò che finita l’impresa di Fiume avrebbe alloggiato a Venezia, alla Casa Rossa, sul Canal Grande, e si sarebbe fatto venire dal museo Grevin di Parigi la sua statua in cera perfettissima e allora il gondoliere l’avrebbe fatta vedere agli stranieri e D’Annunzio cercava di mettere in ridicolo la sua immagine.
Quella sera diceva che da tempo non arrizzava con la musa facendo giuoco su quel verbo perché eravamo a cena con l’ammiraglio Rizzo che aveva forzato i Dardanelli. Invece fu poeticissimo.
Lo avevano invitato i granatieri perché ogni sera un reparto se lo disputava come ospite a colpi di bomba e così era stato necessario stabilire un turno. Egli diceva che se i fiumani non lo avessero voluto più se ne sarebbe andato lasciandoli finire nella perdizione, invece prima che questo avvenisse ci furono battaglie e bombardamenti.
Altra volta mi trovavo a Firenze, ospite di Ugo Ojetti nel suo Salviatino e vi era anche Italo Balbo che di continuo ammiccava a me che ero stato già autore delle cronache dannunziane a Fiume perché non mi ripetessi a sue spese ed egli sempre diceva, pronunciando male, che era imminente un suo « raid ».
Si trattava di un volo con molti aeroplani che egli doveva fare dalla Italia all’America e nessuno capiva di che cosa si trattasse. Allora Ojetti intervenne dicendo che si trattava della sua crociera e così venne battezzato quel volo transoceanico. Ojetti trionfava per avere ospiti in quella villa umanistica uomini di azione e di pensiero.
Un’altra sera mi trovavo a Parigi ospite di Italo Svevo perché era uscita la traduzione del suo romanzo Zeno. Io ero vicino alla moglie di Joyce ed egli era quasi di fronte, parlavano entrambi magnificamente in italiano e con la signora trattavo dei calamaretti del golfo di Trieste, ma a Joyce non piacevano perché sembravano di gomma.
Di italiano egli preferiva il mandorlato, la mostarda e il panettone. Mi ricordo Svevo alle prese con certi antipasti fatti di sardine e di barbabietole porpuree.
Joyce aveva una piccola testa squadrata come un diamante e portava lo smoking come gli inglesi, cioè come fosse una giacca qualsiasi. Aveva uno degli occhi verdigni dilatato nella pupilla ed era a sinistra. Egli conosceva benissimo l’italiano e io nella relazione giornalistica invece di dire l’occhio a sinistra lo chiamavo sinistro. Joyce se ne ebbe a male e pensava che volessi scherzare sul suo occhio malato quando dicevo che era come in un acquerello, e ci volle la intromissione di Nino Frank per farci ripacificare. Dopo la sua morte, nella sua biblioteca, nel reparto degli italiani ve ne erano pochi: Petrarca, Leopardi, Saba, Svevo e Gente di mare di Comisso.
Quando andavo a Trieste a trovare Umberto Saba, allora da questo poeta invero sentimentale il convito diventava di eccezione.
Saba conosceva i negozi di alimentari dove si vendevano i cibi più strabilianti venuti per mare da altre terre, come la bottarga e il caviale.
Benjamin Crémieux così nobile nell’invitare a cena, a Parigi, al Penn Club, gli italiani di passaggio, doveva morire di fame in un campo di concentramento tedesco.
Con la sua presenza uno scrittore italiano non era straniero a Parigi. La sua barba affabile creava subito amicizie letterarie che diventavano fraterne.
Giovanni Comisso
Il Gazzettino, 15 gennaio 1967