Pechino, agosto.
Non stavo molto bene, ma un mio amico venne a dirmi: « I nostri amici tedeschi ci hanno invitato pel pomeriggio ad una rappresentazione teatrale nel più antico teatro della città, e poi a cena in una trattoria popolare dove l’Imperatore Cien-Long andava a fare le sue scappate. Ci sarà un Lama, li rappresentante a Pechino del Gran Lama, e in più quattro attori teatrali ». Balzai risanato, pronto a non lasciarmi sfuggire un simile incontro in ambienti tanto eccezionali. Lo spettacolo teatrale cominciava alle quattro. Partimmo assieme a due amici, tedeschi, professori all’Università di Pechino, tutti in carrozzella, tirati dal nostri coollies, i quali subodorando grandi cose correvano più del solito, gridando ad ogni passo: «Attenzione ! Attenzione! Largo! Largo! ».
I professori tedeschi, pratici per istinto di razza, fecero fermare davanti ad un negozio di ventagli e ci consigliarono di farne acquisto. Il bianco e il celestino del vestiti dei Cinesi fermi sulle porte dei loro negozi risultavano vividi sullo sfondo cinereo delle pareti.
A teatro, col Lama
Il teatro era un po’ interno dalla strada: vi si accedeva da un cortile; e consisteva in un capannone tutto di legno, con una platea e due file di palchetti.
La luce entrava da finestre poste verso l’alto. Il palcoscenico era di foggia antica, quella stessa vista su certi dipinti: una piattaforma quadrata cinta da balaustra, con quattro colonne che reggevano un tetto dagli angoli rialzati. In fianco stava l’orchestra.
La folla era rara e sparsa : si vedevano i ventagli in continua agitazione. Lo spettacolo cominciò tra il feroce assordo della musica. Tutto attorno era un continuo girare di venditori di frutta, di tè, di distributori di asciugamani caldi per togliersi la polvere dalle mani e dal volto. Dal nostro palchetto si vedevano attraverso una finestra retrostante le case attorno e i loro interni con persone distese che si facevano fresco, assorte nel percepire le battute più forti del canto e dell’accompagnamento che arrivavano fino a loro.
Gli amici tedeschi avevano fatto venire pure i loro servitori, dei giovani manciù, dai lineamenti distintissimi, tutti vestiti di seta, cosi fini e severi che dapprima li credemmo degli ospiti. Poi sopraggiunse il Lama. Dato il luogo profano, non venne vestito dei suoi paramenti ufficiali, ma in semplice tunica bianca con un panamino in testa. Volto da mongolo, i baffetti spioventi, disinvolto e vispo, nulla sapeva di religioso. Lo spettacolo proseguiva congestionante e le scene si succedevano a getto continuo. Ci volle tutta la profonda esperienza dei professori tedeschi per indurci ad apprezzare qualche rara bellezza. Di tanto in tanto all’apparire d’un nuovo attore, ci dicevano: « Questo è un attore famoso ;ha soli diciotto anni: guardate come muove le braccia ». Oppure: «Questi diverrà più grande di Mei-Lan-Fan. »
Il mio amico si divertiva a pungere il loro entusiasmo, domandando con finta ansia: «Ci sarà, una battaglia?». Bisogna sapere che come nelle cronache della vita politica quotidiana di questo paese,cosi nel teatro non vi è spettacolo che non finisca in battaglia. « Si, si, ci sarà la battaglia e preceduta da certe antiche danze guerresche; vedrete, vedrete ! »
I servitori manciù sbucciavano delicatamente delle arancie e ci offrivano gli spicchi aperti a raggera. Vennero le danze guerresche, con piroette e salti di generali dai cappelli piumati e con trofei di bandierine legati dietro la schiena; con quel caldo dovevano sudare da morire. Poi vennero le battaglie con sfilate di snelli ragazzi armati di picca e i volti tinti di bianco o di rosso, e uomini dalle lunghe barbe con voci da usignoli. Nei momenti d’azione più intensa c’era il Lama che si dava ad urlare in segno d’approvazione e noi lo si imitava per non essere da meno. Certi colori degli abiti degli attori, certi verdi e azzurri, nella penombra del capannone e quasi fissati dal caldo, facevano pensare ad antichi affreschi.Il Lama era una specie di sostenitore di alcuni artisti, quelli stessi che poi sarebbero venuti a cena con noi, e ogni qual volta apparivano sulla scena questi suoi favoriti, egli scattava ad urlare per ammirazione d’un gesto o d’una cavatina, e noi gli facevamo subito coro.
Segreti di palcoscenico
lo spettacolo finì con una diabolica ridda dei due generali avversari, segnata da brevi pause date da poderosi colpi di piatti che li arrestavano con un piede in aria e gli occhi sbarrali. « Sarà bello, ma troppo, troppo fracasso », si disse ai professori tedeschi; ma questi ribatterono: « Dovete convincervi che questi colpi di piatti sono accentuazioni necessarie ».
Pertanto il Lama volle portarci dietro il palcoscenico per presentarci gli artisti. Qui la luce della sera scendeva da grandi aperture fra il tetto di stuoie; tutta la massa degli attori stava spogliandosi e lavandosi. Al vederci accompagnati dal Lama, troncarono subito, un’iniziale diffidenza per rivolgersi sorridenti e cordiali nello sguardo. Alcuni avevano ancora le guance coperte di biacca, altri gli occhi cerchiati di rossoe di nero. Alle pareti vi erano accozzaglie di armi, di vestiti multicolori, di cappelli piumati e di barbe. Si lavavano il dorso con «asciugamani pregni d’acqua calda. I ragazzi ci seguivano curiosi, ci si divertiva a spaurirli dando loro degli scappellotti; ma subito capivano che si scherzava e allora incuriositi di sapere chi fossimo e di sentire il tono della nostra voce ci dicevano in coro: « Parlaci, fratello maggiore ». Il Lama spinse una porta e in una stanza vivaci e sorpresi, trovammo gli artisti principali che stavano lavandosi. Dopo una recitazione cosi acrobatica non apparivano minimamente stanchi nel volto e si pregò uno degli amici tedeschi di dire loro che noi eravamo veramente stupiti di tanta resistenza alla fatica.
Ma egli ci spiegò come questo che per noi può riuscire un complimento per loro sarebbe stato un’offesa. Per il Cinese, ignobile è il faticare, e farne allusione è appena appena tollerabile da un coolie.
La trattoria dell’Imperatore
Precedemmo gli artisti nella vicina trattoria dell’Imperatore Cien-Long. La cucina era tutta accaldata: grandi fiammate uscivano dai fornelli; i cuochi stavano tutti affaccendati e sudanti. Ci accolsero i grandi inchini del padrone e avemmo una piccola stanza al piano superiore. Dalle finestre aperte si vedevano gli interni di altre stanze vicine dove altri banchettavano; e giù la strada con la folla che andava e veniva. Gli amici tedeschi ebbero cura di fissare subito i posti. Il posto d’onore venne dato al rappresentante del Gran Lama. Era il posto a nord e di fronte aveva la porta d’ingresso.
Ancora ci raccomandarono che al sopraggiungere degli attori noi dovevamo subito alzarci in piedi e cedere loro i nostri posti: il rimanere seduti li avrebbe intimiditi e offesi. Così si fece al loro arrivo; solo il Lama rimase seduto.
Comparvero agili come saltimbanchi che entrano nel circo ; ma come ci si trovava di fronte per stringere loro la mano, dopo gli inchini, assumevano espressioni tra spaurite e sospettose. Uno ricordava fortemente Gilles di Watteau, un altro aveva un aspetto italiano, gli altri apparivano di secondaria importanza ed ebbero posti dopo di noi. Un garzone portò in cesti di vimini gli ottimi asciugamani caldi per ristorare il volto. Dopo la bevuta augurale di vino di riso caldo, vennero messe in tavola le prime portate. Il Lama e gli attori si precipitarono con le bacchettine ad afferrare gamberetti o gemme di bambù, ma non per servire se stessi, bensì per offrire a noi. I professori ci avvertirono che sarebbe stato grande segno di gentilezza fare altrettanto.
E così, più che mangiare, in un primo tempo fummo tutto uno stare alzati intenti a prendere dalle zuppiere messe al centro della tavola qualche boccone scelto da offrire. Lo stesso avveniva per il vino: se uno mesceva nella nostra tazzetta bisognava bere e sino in fondo, e poi a nostra volta contraccambiare. « Un vero convito d’amore » si disse, e i professori si affrettarono a tradurre, suscitando da parte degli attori nuovo slancio di offerte.
Successero altri piatti, sempre cinque alla volta: funghetti, fegatini e altre minutaglie saporitissime e indecifrabili. Già si pensava che la cena fosse finita, quando ci venne spiegato che quelli non erano che gli antipasti. Poi passammo al sodo della cena. Zuppa di nidi di rondine, uova quindicenni, pollo sminuzzato, pinne di pescecane, teste di anitra, pesce arrosto e inzuccherato, frittura di cervella, pesce in umido, cuore di vitello, spaghetti, ravioli, anitra alla pechinese: un piatto si succedeva all’altro con la stessa frenetica continuità, come le scene sul teatro di prima. Poi venne il riso a dare il segno che era finito. La curiosità si univa all’obbligo di non rifiutare quanto veniva offerto e si pensava ad un’indigestione solenne, ma il vino caldo bevuto ad ogni istante, tolse ogni pericolo.
“Budda Sorridente,,
Il mio amico, gioviale e nutrito, attraeva la simpatia degli attori. Essere grasso per il Cinese è un segno di saggezza e di prosperità. Ancora il suo volto sempre umanisticamente sorridente ricordava l’aspetto del dorato panciuto Budda Sorridente del tempio del Lama.
Sicché con lieta ossequienza gli attori nel rivolgergli il discorso lo chiamavano: Budda Sorridente. Al caldo dell’aria s’aggiungeva quello della cena subita e ognuno agitava il ventaglio. Tutte le idee che manifestavamo ai Cinesi dovevano venir chiuse in immagini poetiche. E i professori tedeschi dovevano affaticarsi nel tradurre. Riferendoci al loro valore teatrale si disse: « Siete alti e armoniosi come le colline dell’Ovest, ma presto come le montagne di Calgan ». Quello che somigliava a Gilles s’alzava in piedi e ascoltava, tenendo un sopracciglio rialzato; capita la frase, sorrideva, faceva degli inchini e poi ci serviva da bere. « Prima il teatro era come il profumo d’un flore, questa cena è come il sapore d’un frutto. » E Gilles ci rispose:
« Voi siete gli usignoli che cantano sulla cima degli alberi ». Il vino lottava col forte cibo, ma non ci sentivamo ebbri. Da ultimo si volle che, a principiare dal Lama, tutti ponessero le loro firme sui nostri ventagli e questo parve altamente commuoverli.
Giovanni Comisso
Pubblicato sul Corriere della Sera il 28 agosto 1930