Sulla nuova sistemazione del Museo Etrusco di Villa Giulia, Antonio Cederna ha espresso un’opinione che è quella della maggior parte degli studiosi. Giovanni Comisso, che vede le cose da viaggiatore, da curioso e da poeta se ne dichiara invece soddisfatto. Il nostro lettore, abituato alla spregiudicatezza, non si scandalizzerà di trovare sull’argomento due opinioni tanto diverse e, probabilmente, entrambe legittime.
Avevo visitato il Museo Etrusco di Firenze e avevo constatato la triste situazione dovuta a una fatalità di mezzi inadeguati per riassestarlo. Quando scrissi su questo giornale un articolo in cui mi auguravo una selezione e una messa in mostra in modo da deliziare e da attrarre il visitatore, non sapevo ancora che il Museo Etrusco di Villa Giulia era stato appunto riordinato secondo questi intendimenti. Andai subito a visitarlo e ne sono stato soddisfatto al massimo. l’esposizione è come mi auguro debba avvenire per quello di Firenze e per tutti i musei etruschi d’Italia.

Prima di tutto il museo di Villa Giulia è totalmente etrusco, senza intromissioni di opere appartenenti ad altre civiltà; poi sia per la luce dei locali, per la disposizione degli oggetti nelle vetrine e anche per essere state eliminate le fastidiose ripetizioni è finalmente possibile inebriarsi a una lettura attenta dei disegni sul vasellame, delle incisioni sugli specchi e della fattura dei monili. È così possibile creare un più vasto interesse per il mondo etrusco, con nuove idee su di esso in visitatori che non siano profani e non siano archeologi, ma appartengano a quella via di mezzo, alla quale appartengo anch’io. Mi si disse che per il mio articolo sul Museo Etrusco di Firenze ero incorso in un errore nel dire non essere ravvivante che dieci vasi uguali, con lievissime differenze, debbano stare tutti insieme allineati, mentre per il dotto troppo dotto, per l’archeologo infinitesimale, per lo studioso studiosissimo quella serie di vasi uguali dà illuminazione a comprendere che in un dato luogo, al tempo degli Etruschi, funzionava un artigianato standardizzato. Non è da queste scoperte che si arriverà a comprendere il sorriso ambiguo delle divinità etrusche. D’altra parte conosco un altro museo etrusco che tiene relegati nel magazzino teschi di etruschi trovati nelle tombe locali, perché esporli accanto ai già numerosi sarcofagi si teme di dare un’esposizione troppo macabra. Mentre una esposizione di questi teschi potrebbe giovare a dare il motivo di scoprire l’origine di questo popolo. Mi si disse in quel museo che, quando ritrovano di questi teschi, li mandarono alla facoltà di Medicina dell’Università di Firenze, dove credo non esistano etruscologi e di dove non risulta sia stato fino ad ora emanato alcun responso all’enigma.

I dotti troppo dotti non sono ancora riesciti a spiegarsi, perché gli Etruschi usino in parte la conservazione dei cadaveri e in parte la cremazione, anzi siccome la cremazione era in uso nelle tribù delle terremare padane sono giunti a credere che gli Etruschi derivino da quelle zone. Sembrerebbe naturale arguire che i cadaveri si cremavano appunto nei luoghi dove il terreno melmoso non dava affidamento alla conservazione e invece si conservavano intatti nelle tombe asciutte di tufo. Altri sono gli errori da contrapporre al mio errore, come quello di ritenere che gli Etruschi siano autoctoni dell’Etruria non trovandosi in questa terra traccia di genti preesistenti. Sostenere questo dimostra di non conoscere geologicamente l’Etruria, la quale nel decimo secolo avanti Cristo, epoca in cui sembra che vi apparissero gli Etruschi, doveva essere appena telluricamente consistente tra i suoi pantani e i suoi sommovimenti vulcanici. La si guardi, questa terra, dalle pendici dell’Amiata, come appare ancora oggi per le sue crete, per le sue veementi eruzioni di soffioni e di sorgenti calde, per le sue vallette marcite di emanazioni solfuree quasi in uno stato di precarietà. Gli Etruschi giunti in questa terra per via di mare la trovarono vergine e per questo l’amarono tanto perdutamente che pure non essendo rudi guerrieri riescirono per lungo tempo a contrastarla ai barbari romani. Ed è forse da questa situazione di vera scoperta di una terra nuova e per averla totalmente ricreata, sposandola a loro stessi, che va spiegato tutto l’intimismo del popolo etrusco: tanto amore per la vita, tra il gusto per le danze e quello per i banchetti, per i piaceri, per gli esercizi ginnici, tanto attaccamento a queste oziose armonie da volere protrarle immanenti nelle figurazioni tombali. Solo il generoso godimento della vita, offerto da questa terra completamente deserta di uomini, coi quali non dovere contrastare al sopraggiungere, può avere acceso tanto senso affettivo verso i morti, con un culto ispirato dalla convinzione che quella vita felice non poteva finire con la morte.
I sentimenti e gli affetti nascono da un totale innamorarsi della vita, di una vita felice e la loro vita doveva essere felice, come lo fu per tutti i pionieri in una terra vergine. Forse e anche da questa situazione che si può spiegare il terribile sorriso dell’Apollo di Veio, se si pensi come gli Etruschi dovevano guardare il sole dalla loro terra, convinti che nello stesso istante che esso coi suoi raggi emana la fecondità, esso scandisce il tempo mortale. Vita e morte corrispondono al sole e raffigurandolo statuariamente doveva sorridere satanico, ambiguo: promettente e crudele. Ma ancora questi dotti troppo dotti non si sanno decidere di affermare che gli Etruschi siano venuti dal mare, perché lungo il mare di Etruria le città portuali sono rarissime al confronto col numero fitto di quelle del retroterra. I dotti troppo dotti dovrebbero avere più senso poetico, più intuito e anche un poco di logica: avvicinarsi a Schliemann insomma. Per quale ragione un popolo venuto dal mare avrebbe dovuto abitare soltanto lungo la costa se questa in maggiore parte era paludosa, malsana ed esposta ad altri popoli naviganti, mentre nell’interno si offriva una terra ancora intatta da ogni coltivazione? Una terra ricca di selve, di cacciagione, di metalli che avrebbe fatto dimenticare per sempre la patria d’origine?
Queste idee più o meno veritiere mi sono venute sorgendo nel visitare appunto il Museo di Villa Giulia, ora che è stato riordinato a nuovo. E vorrei potere affermare che le idee non sorgono sempre da una schedazione meticolosa, da un soppesare al milligrammo le documentazioni, anzi seguendo questa via si fossilizzano, si perdono e non si chiarificano protraendo all’infinito la soluzione dei problemi archeologici.
Giovanni Comisso
da Il Tempo del 14/06/1955
Immagine in evidenza: Museo nazionale etrusco di Villa Giulia – Sarcofago degli sposi (Sailko, Wikimedia Commons)