Paolo e Antonio Acquicella sono fratelli, vivono in una provincia “dove le cose hanno il vizio di restare uguali” (cit.), occupano quella parte di umanità dove anche i sentimenti sono un lusso, e cercano di tirare avanti a limite della povertà. Sono quel che rimane di una famiglia distrutta dall’alcol, dai maltrattamenti, dall’abbandono, sono “ignorati come effetti collaterali di una malattia passata” (cit.), ma soprattutto, sono divorati dal demone della paura di essere fragili, di soccombere in un mondo che li ha lasciati affamati, appunto: ingaggiano una resistenza e una lotta per sovvertire un ordine da cui sentono di essere stati estromessi.
Paolo Acquicella era avido di distruzione.Paolo funzionava come una pentola a pressione: sfiatava un perenne filo di rabbia necessario a non farlo esplodere. Ma se il coperchio fosse saltato, tutta la smania di distruzione che gli ribolliva dentro si sarebbe liberata. Antonio era lo stronzo costretto a tenere una mano sul coperchio.
La tensione emotiva cresce al passo con il delirio di onnipotenza criminale di Paolo: è la parte in cui la radicalizzazione di certi fenomeni di attualità e di violenza, da un lato, e l’investimento emotivo del lettore, dall’altro, assumono un paradigma quasi televisivo – mediatico: tutto si fa vero perché il lettore ‘vede’ la scena, mentre il personaggio sembra perfettamente a suo agio a spettacolarizzare l’eccesso di sé, in nome di un implicito patto veuilleristico che Insolia consolida attraverso l’uso di una parola scritta dal potere multimediale. Gli elementi tecnici ci sono tutti: il racconto si costruisce in una sequenza di scene claustrofobiche (gli ambienti sono ciclicamente gli stessi) attraverso le quali si punta ad accrescere il coinvolgimento del lettore; l’attenzione ai dettagli materiali che rivelano lo status dei personaggi, come pure una ricostruzione fedele della ‘scena del crimine’ quasi sensoriale e un uso realistico dei dialoghi.
Un esordio senza se e senza ma: “Gli affamati” di Mattia Insolia merita di essere letto come uno dei libri più belli del 2020, e fuori dall’indubbia maestria dell’autore, questo accade anche in virtù del fatto che l’opera sta bene dentro un genere letterario da cui ci siamo scoperti affascinati.
Per quanto si rifiutino definizioni, etichette, o accostamenti narrativi, il fatto è che il romanzo “Gli affamati” si è formato dentro le stesse argomentazioni in cui si affermano le ragioni di una prosa che all’occorrenza si fa denuncia sociale, che attinge dall’analisi antropologica dell’ambiente urbano e periferico contemporaneo, che ausculta il degrado morale umano. È la realtà a dare vita a uno storytelling disturbante che impazza un po’ ovunque, ispirazione inesauribile in cui forgiare personaggi e trame uguali quanto diversi, vagamente clonati quanto autentici, che comunque hanno dimostrato di funzionare alla perfezione anche nella trasposizione televisiva e cinematografica. Si ritorna all’epopea del romanzo sociale e post-industriale, sebbene con una progressiva specializzazione più palesemente criminale e psicologica.
Si frequenta, dunque, sempre più spesso copioni dalle connotazioni forti e urlate, con personaggi anomici che vivono ai margini di qualsiasi costrutto sociale o legame affettivo. C’è voglia di raccontare la sensazione di precarietà sociale, la disperazione, il fallimento, la paura, l’assurdo, l’abisso, il crimine, il disagio, la fascinazione per il male, la rabbia, che malgrado tanti prequel, continuano ancora a sfornare storie che si impongono come nuove. Per dirla tutta, c’è anche tanta voglia di immergersi nel disincanto, perché diciamolo, siamo sedotti dalla possibilità di scrutare negli abissi (lo aveva già detto Nietzsche).
E con questo, siamo giunti al punto: “Gli affamati” non è solo la storia di asservimento e fedeltà tra fratelli; non è solo lo stigma di un disagio psicologico nascente dallo stress di minoranza sociale, ovvero, dal timore di essere diversi, per il quale il livello di vigilanza sfocia nella demolizione di sé e dell’ambiente in cui tutto ha origine. La fame (o il desiderio infame) è una cosa che riguarda il romanzo, è il romanzo medesimo.
Mattia Insolia ha fatto centro scrivendo un’opera viscerale e ‘fisica’ che parla a tutti, di tutti: a quelli che siedono dalla parte del torto, e a quelli della ragione; a quelli che sopravvivono a se stessi e a quelli che la rabbia ha sepolto; ai malati di desiderio, bruciati di incanti e meraviglie e a quelli che non sentono il bisogno di desiderare.
Paola Milicia
L’intervista
Partiamo dal titolo. Aver fame è anzitutto un’espressione che fa pensare immediatamente alla sensazione causata da un bisogno di cibo, anche se si può benissimo parlare di un’appetenza in senso metaforico. Tra i sinonimi di fame, infatti, c’è aspirazione, ambizione, brama. Cosa nutre i tuoi personaggi e cosa li tiene sempre in uno stato di continua voracità ?
Dei sinonimi che hai elencato, credo che il più azzeccato all’accezione di fame dei ragazzi sia “brama”. Il romanzo all’inizio avrebbe dovuto intitolarsi “malati di desiderio”, proprio perché la loro vita, fatta quasi esclusivamente di mancanze, è governata da un desiderio senza nome o forma che in tutto e per tutto li governa. Ed ecco di cosa si nutrono i miei personaggi: della rabbia che nasce dalla sensazione di vuoto che li riempie; il vuoto non lo immagino come un immenso spazio sgombro, ma come qualcosa definito da forme nette, linee precise, e che quindi può essere riempito solo da qualcosa che abbia gli stessi contorni. Ed ecco cosa li tiene in uno stato di continua voracità, come dici giustamente tu: il desiderio, che è il rovescio della rabbia.
Tra le diverse epigrafi che hai scelto quella di William Carlos Williams me ne suggerisce un’altra non dissimile, dello stesso autore: “Tutti devono arrivare da sotto, attraverso uno strato morto… colui che vuol crescere deve prima affondare”. Quindi esiste anche un dolore portatore di rinascita? Dobbiamo considerare questo come un messaggio di speranza con cui leggere la tua opera?
Non esattamente. Nelle mie intenzioni non era un messaggio di speranza, ma un tentativo di giustificare la sofferenza che permea le pagine di questo mio romanzo. Sono convinto che nessuno abbia mai imparato niente da un giorno di sole, come ha detto qualcuno una volta, e che quindi ognuno per raddrizzare le storture della propria vita, risollevarsi da terra, tornare a vivere, debba prima affondare. Il dolore è un maestro saggio, paziente e caparbio; una sorta di precettore che non ti molla finché non hai imparato la lezione. Sta a noi, poi, afferrare subito il concetto o sguazzarci dentro, ma penso che solo attraversandolo si possa rinascere. È del cambiamento, che abbiamo bisogno, e quello arriva solo dopo i grandi scossoni.
Il romanzo narra uno spaccato soprattutto interiore, psicologico. Quanto conta la conoscenza diretta della vita quando si racconta? E come ti sei ‘preparato’ a dare forma ai personaggi di Paolo e Antonio?
La scrittura per me non è pura invenzione ma più una sorta di scavo. La penna è la vanga e la materia di cui voglio narrare è il terreno, i cadaveri che trovo sepolti lì sono i tipi umani che diventeranno i miei personaggi. Come dei fossili. Sono loro i protagonisti della storia, sono loro che sanno il motivo per cui si trovano lì e sono loro che devono raccontarmela, questa storia. Ecco, per me funziona così: i personaggi mi suggeriscono cosa scrivere perché sanno cos’è successo. Accade in modo molto naturale, scrivendo mi dico solo “ecco, sì, dev’essere andata così”. Prima di affrontare la stesura vera e propria, come giocando ad acchiapparella, inseguo i personaggi che penso abiteranno la storia e ne traccio i contorni; faccio un lavoro preparatorio che dura un paio di mesi, descrivo personaggi, ambienti e via discorrendo.
Le opere narrative, come le serie tv del momento, sono sempre più ispirate al crimine, a efferati delitti di cronaca, a storie di eroi del male, arrabbiati e vendicativi. Non credi che questa dose eccessiva di realismo, se da un lato rinnova la necessità di interrogarsi sull’emergenza della crisi sociale, dall’altro infierisce sulla formazione di un pensiero e di una cultura positivi, di un’attitudine alla convivenza con l’altro pacifica e includente?
Non credo. I libri, i film, le serie tivù, le canzoni sono anche, forse soprattutto, degli spunti di riflessione. La letteratura non è qualcosa, come del materiale radioattivo, che viene riversato in un contenitore vuoto: chi legge, guarda un film o una serie tivù o chi ascolta una canzone lo fa filtrando, elaborando, digerendo quel che ha tra le mani – o almeno così dovrebbe essere, ma oggi, specie sui social, l’impressione che ho è tristemente diversa -. Se io racconto una storia che positiva non è, che va contro principi e idee felici o progressiste, non lo faccio per esaltare la violenza, la rabbia, il crimine, ma per fare luce su accadimenti o, peggio, pensieri e realtà che esistono. Inutile nascondere la testa sotto la sabbia, raccontare il contemporaneo vuol dire raccontarlo così com’è. I cattivi ci sono sempre stati, ignorarli non li farà sparire.
Stai già lavorando a un secondo romanzo?
Sì, ma è un cantiere aperto e per ora io sono solo un vecchietto che sta lì, dietro le inferriate, a studiare ogni centimetro di quel buco nel terreno. Dei corpi però ci sono. Ci sono sempre.
Mattia Insolia. Gli affamati
Narrativa – Collana: Scrittori
Copertina flessibile : 176 pagine
Prezzo: € 14.00
Editore : Ponte alle Grazie (2 luglio 2020)
Mattia Insolia è nato a Catania nel 1995. Si è laureato in lettere a La Sapienza di Roma con una tesi sul movimento letterario dei Cannibali italiani, ha proseguito gli studi in Editoria e ha pubblicato racconti per antologie di vario genere. Negli anni ha scritto per diverse riviste di cultura, e oggi collabora con l’Indiependente per cui si occupa di critica letteraria e cinematografica.