Poiché non si può parlare del dolore se non si è provata la gioia, devo sempre ricordare i pasti orrendi in rapporto a quelli deliziosi. Delizia fino dalla infanzia fu la cucina di mia madre: con le sue pietanze celebri richieste da mio padre e che formavano nella nostra casa come festoni allegorici e trionfali al passare del loro amore e degli anni. Primeggiava il pasticcio di maccheroni di cui ancora risento il sapore della crosta, il muscolo di vitello con cannelloni, gli gnocchetti alla romana con ragù di sopra, il riso e verze alla lombarda, la galantina di pollo, il baccalà in umido col latte e tante deliziose pietanze che dovevo poi rimpiangere quando andai soldato.
Soldato di caserma per alcuni mesi e soldato in guerra per alcuni anni: esperimenti al massimo per quanto si può mangiare male su questa terra. Il condimento per tutto quel tempo fu sempre offerto da una fabbrica che si chiamava Torregiani e che ci lasciò tracce d’intossicamento nel profondo dei tessuti ancora per molti anni dopo la guerra. Cosa contenessero quelle grandi scatole di latta cilindriche non si sa, certo che ogni colica reggimentale, correva la voce che era stato il Torregiani. E quella pasta che invece di farina doveva contenere marmo macinato e non si cucinava mal spezzandosi in frammenti? E quella carne che era assolutamente di vacca perché un giorno qualcuno nella sua porzione trovò mezza mammella.
Neanche quando divenni ufficiale si migliorò un poco, sempre la solita pasta, la solita carne dura e il solito Torregiani.
Unico periodo luminoso durante la Battaglia di Gorizia perché mi avevano mandato in aiuto al molto lavoro telefonico un soldato veneziano che proveniva dalla fanteria ed era cuoco. Costui non sapeva tenere in mano il telefono e per paura che lo facessi rimandare in fanteria, si prodigò come cuoco in quei giorni infernali preparando per me e i compagni le pietanze più gustose della cucina veneziana. Per una fame di vent’anni tutto è buono. Ma quello che abbiamo mangiato in quegli anni è stato orrendamente indimenticabile.
Poi seguì una vita da studente universitario da una città all’altra e il cibo dovette essere sempre come su una falsa riga di quello della vita militare se ricordo, come può ricordare una isola accogliente un naufrago gettato dalle onde, certi semplici piccioni ripieni che la padrona della pensione di Siena mi offriva nell’ultimo anno d’università. Quindi cominciarono i miei viaggi per il mondo. Certuni viaggiavano per il gusto di vedere paesaggi, altri di vedere monumenti dell’Arte, altri per gustare amori strani e donne diverse, altri disgraziati, per assaggiare le pietanze esotiche.
Fatta eccezione della cucine francese del Piccolo ristorante di Saint Benoit, col padrone che era stato cameriere di Apollinaire, con le sue ostriche, con la sua gallina al riso salsa suprema, coi suoi cavolfiori o porri gratinati, e fatta eccezione della cucina di Marsiglia. In certi giorni d’inverno, in attesa di partire per l’Africa, con la sua zuppa di pesce, colle sue chiocciole, colle sue aragoste, da un oceano all’altro ho mangiato male e malissimo.
In Germania zuppe di ciliege e sempre salsicce arrostite con patate. In Inghilterra rosbif e rosbif con senape, lunghe fette come di prosciutto che si allungava come rossa gomma. In Olanda dovevo saziarmi con la colazione mattutina di formaggi e di insalata russa, però fu ad Amsterdam che, invitato presso una famiglia gustai un indimenticabile manzo brasato che si lasciava tagliare come una crema di cioccolata. Attraverso il Marocco, la Algeria e la Tunisia mangiai solo perché avevo un coraggio da leone, se ricordo ancora come una saporitissima sorpresa le uova impastate e fritte nell’olio bollente.
Poi venne il grande viaggio per l’Estremo Oriente. La cucina di bordo aveva un sapore che per ottanta giorni non variò sebbene il cuoco provenisse dalla casa reale e si mutassero i meridiani. Era una cucina da albergo di lusso galleggiante dove il sapore veniva umiliato dai titoli nobiliari delle pietanze senza lasciare ricordo. Ma si era più che altro attratti dalla frutta equatoriale come si penetrasse sempre più dentro in un paradiso terrestre. Sbarcato in Cina dapprima mi rivolsi alla pietanza spicciativa de cherry al pollo o all’agnello, poi tentai la cucina cinese. La trovai sana saporita, fantasiosa, ma sembrava sempre avesse un predominante sapore dato dal rancido della soia come venisse dissepolta dai millenni della storia cinese attraeva perché inusitata, ma non so perché ogni pietanza risultasse non come fatta espressa per la mia persona, ma per i duecento milioni di cinesi che nello stesso tempo del mio pasto dovevano mangiare la stessa cosa. Difatti nel loro inno nazionale una strofa dice: “Noi siamo duecento milioni di cinesi e si mangia cibo cinese. Viva la Cina”.
Se in Cina mangiai veramente bene lo fu alla mensa del Nunzio Apostolico, Celso Costantini che, veneto come me, m’invitava a gustare il suo riso coi piselli.
Nel viaggio attraverso la Siberia mangiai tutta roba in scatola portata con me perché gli anni erano ancora incerti per l’alimentazione in Russia. Ma a una fermata sul lago Baikal avendo visto del roseo salmone mi precipitai a comperarlo, ma tra quel colore attraente, e il sapore nauseante non ho mai avuto tanta delusione in vita mia. A Mosca se non mi adattavo ai cavolfiori dell’Ambasciata dovevo adattarmi alle patate nere del ristorante per gli stranieri che venivano servite dopo mezz’ora dall’ordinazione.
Finiti questi primi viaggi ebbi una casa per me, ma per quanti cuochi cambiassi non mi fu possibile mai mangiare saporitamente e dovetti finire con l’adattarmi per alcuni anni a farmi da mangiare da me. Uno di quei cuochi fu memorabile perché volendo farmi il risotto alla milanese sbagliò dose dello zafferano e ve ne mise tanto che mi fece venire l’itterizia.
Ripresi a viaggiare, e andato in Africa Orientale appena finita la guerra mi trovai travolto in tali avventure culinarie che non potrò dimenticare mai. Nelle trattorie di Dessie si doveva ordinare sempre la pastasciutta in bianco per accorgersi più facilmente delle mosche che non dimenticavano mai d’apparire dal fondo del piatto. E ad Harar dopo aver mangiato per alcuni giorni una carne che pareva di cane a una trattoria che si chiamava Torinese, invitato a colazione dal Governatore generale Nasi, sperai di sollevarmi. I camerieri negri con cappe di seta e turbanti portarono un risotto in bianco, ma certi segmenti rosei che credevo cipolla rosolata erano semplicemente vermi.
Può darsi che questi accidenti siano toccati a me per un destino calamitoso, ma è anche vero che fare da mangiare in modo semplice e buono pure con mezzi scarsi è difficile come nel mondo sono sempre state difficili le risoluzioni più semplici.
Doveva venire la guerra europea a riaffidare la cucina a mia madre, isolati nella mia campagna. Avevamo certamente le basi prime per fare da mangiare: farina, latte, burro, uova, polli, e ogni sorta di verdura in quegli anni difficili ho ripreso a sentire il sapore delle vivande perché mia madre aveva riportato sugli altari la sua, semplice sapienza che già nell’infanzia mi aveva soggiogato e dato il senso del mangiar bene.
Non è che si abbia una pretesa materialistica. Esiste una differenza fra il mangiar molto e senza discernimento, e il mangiar anche poco, ma scelto e gustoso. Il primo nella sua sordità può essere considerato materialismo, ma ancor più materialistico è l’esser costretti a mangiare male.
Giovanni Comisso
da Il Giornale di Sicilia del 16/03/1961