"L'uomo è morto" di Giovanni Comisso

“L’uomo è morto”. La visione distopica di Giovanni Comisso

A certe rivoluzioni bastano poche parole per compiersi. A quella di Cristo sarebbe bastata la verità chiusa nella parabola dei vendemmiatori. Il compenso deve essere uguale tanto per quelli che ànno aderito al lavoro dal principio della giornata, quanto per quelli che sono venuti ultimi. Non è il quantitativo di lavoro che deve essere premiato, ma l’atto spirituale della adesione al lavoro e dell’abbandono dell’ozio. Un atto di fede va computato uguale indipendentemente dall’utile materiale.

Si può pensare se, in un mondo dove gli Ebrei valutavano le frazioni di centesimo e dove i Romani consideravano l’individuo solo per il suo cumulo di terre, di case, di ville, di armenti, di schiavi e di raccolti, non avrebbero crocefisso Cristo e i suoi sostenitori.

La cena di Trimalcione con il suo ridicolo è una parabola cristiana contro coloro che stavano fermi al novero della propria opulenza, come se avessero sbattuto la resta contro una muraglia. E fu premonitrice della rivoluzione che doveva avvenire dopo, ma i sintomi delle idee che mutano il percorso della storia come vengono avvertiti e da chi prima della venuta dei messia? Anche i venti che determinano il percorso dei velieri, se mutano, vengono preavvertiti dai marinai all’odore dell’aria e al peso della mente. Impossibile che nel nostro tempo non sia avvertibile il sintomo di quello che sarà il mondo di domani.

La cena di Trimalcione da “Fellini Satyricon”

O’ perduto la grande speranza che l’uomo non sia il centro del l’universo. Speravo che nel cosmo vi fossero, in altri sistemi solari, altre terre con altri esseri umani. Un mio amico più ragionante di me mi contraddisse che di fronte alla ipotesi vale la certezza, e soggiunse che oggi siamo solo certi più che mai che l’uomo è il signore dello spazio e nessun altro essere lo uguaglia, quindi possiamo ancora ritenere valido il sistema tolemaico.

Indubbiamente se tutto l’universo dovesse servire per determinare altre terre con altri uomini con tutte le nostre imperfezioni e stupidità, bisognerebbe concludere che il grande gioco non vale la candela della luce, della vita. E io che mi lusingavo pensare a queste altre terre come a residenze ideali dove non si scrivessero libri con il glossario per spiegare il contesto dialettale, dove non si dipingessero quadri per i quali è necessaria la bussola per sapere quale sia la giusta posizione da appenderli. Ma sulla nostra terra anche questo doveva avvenire, altrimenti quale soddisfazione sarebbe riservata alle generazioni future se non avessero da industriarsi nel riscoprire il fondamento dell’arte.

E’ sempre andata così: l’uomo deve perdere la conoscenza accumulata fino ai limiti massimi per poi riprendere di nuovo il filo e riuscire a costruire il serico bozzolo dell’armonia e del freno. Ma a forza di salire e di scendere, nel lungo corso dei secoli, l’uomo si è logorato nel suo corpo e non sarà mai più possibile che egli ritrovi le forze per tessere ancora il filo come nelle epoche auree. Già gli uomini sono tutti più o meno colpiti dalla cecità, come si farà a dipingere se non si potranno vedere i quadri e dovranno come Michelangelo, vecchio, palpare le statue per vederle. Per leggere i libri, se ancora avranno l’udito è probabile che vengano editi in dischi. E saranno senza dialoghi, perché l’uomo avrà oramai perduto il meccanismo del dialogo, isolato in se stesso, dopo avere ceduto alle macchine la facoltà di domandare e rispondere.

La vita assecondata dalle possibilità delle macchine va verso il potenziamento della massa: l’uomo non esisterà più. Basta guardare una strada dei nostri giorni: tutti vogliono avere un’automobile andare in automobile e morire in quel l’automobile.

Hieronymus Bosch – “Trittico del Giardino delle delizie”, olio su tavola, 220 × 195 cm, Madrid, Museo del Prado

Ecco un quadro di questa vita interpretato alla maniera di Geronimo Bosch. Una motocicletta supera tutti in fuga dalla massa incalzante ed esplode fumo da un tubo come un cannoncino in azione, collegato al corpo che la cavalca. Corpo e motore sono una macchina sola, i piedi appuntiti come quelli di un guerriero coperto da corazza e le gambe arcuate come quelle di una vespa. Queste figure risultano chiuse in una bolla di sapone che le conserva e altre seguono con figure identiche visibili.

Ma un’altra contiene due vecchie sedute al tavolino di un caffè, uscite intolleranti della casa casermale, quasi fosse apparsa antecipatrice della loro tomba. Vogliono farsi vedere e rasentare dalla folla scorrente, mentre allungano verso un cono gelato la lingua come quella di un camaleonte.

Alcuni giovani hanno inventato cappelli di carta gialla con penne di gallo e la loro bocca pallida risulta come un becco socchiuso all’alfa delle caserme, mentre ogni facciata è uno specchio battuto dal sole.

Anch’essi sono dentro alla propria bolla di sapone che impedisce di sentire la loro voce. Portano a tracolla pentole di cucina, forse vinte a una pesca di beneficenza per gli ultimi uomini liberi, decaduti in una casa di ricovero, legate a una catena che finisce alle loro caviglie strette da una morsa per condannati. Le automobili si susseguono alternate alle carrozzelle per bambini, a uno o a due posti, con ombrellino, con pallottoliere e con mantice. Le auto sono cariche di vecchi, di donne e di ragazzi, ognuna e avvolta da una bolla diventata di vetro e i loro corpi sono come quelli dei santi nel loro sarcofago che attende l’adorazione. Un tamburo è battuto a tempo di jazz e dà la cadenza a questo andare infrenabile e dirompente.

Nessuno ha voluto rimanere nella propria caserma, fermo al suo strumento di lavoro. Tutti hanno mezzi veloci per roteare, per sollevarsi da terra. Sono deformati agli orecchi, al naso, al mento come pervasi da una alterazione della cartilagine. Spuntano aguzzi i denti canini. Non vi è assolutamente scampo, accerchiano, sospingono e si scavalcano. Donne spudoratamente grasse sotto ai vestiti leggeri, succhiano coni gelati e accertano esistente una bestialità maschile come quella del minotauro. Sono esseri maturati dal lungo inverno che cercano di alzarsi in volo al primo caldo estivo con ali di piombo. Ognuno ha la sua bolla vitrea che lo chiude assieme ai propri bambini, ai propri vecchi, alle proprie donne. Vanno queste auto, queste bolle di sapone sospinte da un vento che muove solo esse e tutti sono allibiti dalla luce, increduli al panorama dei colli e dei laghi, nel giorno domenicale della propria libertà provvisoria.

“Blade runner 2049” Denis Villeneuve

Si è creata una vittoria dello spazio per tutti, un contagioso turismo di massa, con una cucina di massa. Moriremo sommersi dai cestini da viaggio e dalla pastasciutta reggimentale traboccante fuori da rustiche case tramutate in false trattorie romantiche.

Muoversi per mangiare e per esplorare il caos dei panorami incompiuti dal diluvio. Muoversi per dare ossigeno alla carne che cresce e si moltiplica come il foraggio nei prati a primavera, concimati durante l’inverno dalla brodaglia del letamaio. Carne della massa che riempie le cloache che vanno a sollevare il livello della terra lentamente gonfiato come un pallone, sommergendo i ruderi delle antiche città. Stratificazioni di escrementi della massa, stratificazioni di cadaveri della massa gonfiati dalla putrefazione: carne acre di sudore, villosa, pallida e tremolante nata dal letame, nutrita dal letame per lavorare, per avere denaro, per mangiare, per moltiplicarsi con la congiunzione, una volta chiamata: amore.

Carne pregna di sangue viscido come una melma: carne della massa trionfante sul ricordo dell’uomo segnato da lapidi indecifrabili.
La valanga come una lava incandescente movimentata da un pendio di un vulcano in eruzione, oramai non si ferma più.
Non vi è parabola possibile di suscitarle contro una rivolta: l’uomo è morto sulla terra e non risorgerà più.

Giovanni Comisso

Pubblicato su Il Mondo il 5 gennaio 1965 pag 5.
Si ringrazia la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e il portale della Biblioteca Digitale.
Immagine in evidenza: “La Parabola dei lavoratori della vigna in un dipinto del XVII sec”

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