Nel 1964 l’editore Mursia pubblica “Pesca notturna e altre pagine” di Giovanni Comisso. L’edizione del’64 con ristampa del ’69 è curata dal prof. Silvio Guarnieri e da Marino Buffoni.
Proprio di quest’ultimo è lo scritto che vi proponiamo oggi, un sentito e commosso ricordo dell’ultimo incontro avuto con lo scrittore.
L’ultimo incontro
In una limpida giornata di gennaio, mentre chiacchieravo con alcuni commilitoni nella Galleria Umberto I di Napoli, la televisione diede la notizia della morte di Giovanni Comisso. Per avere informazioni più dettagliate, andai all’edicola più vicina per cercare qualche giornale del Nord, ma mi venne risposto che sarebbero arrivati nel pomeriggio. Dopo un’attesa di alcune ore, riuscii a leggere Il corriere e La Stampa; del Gazzettino neppure a parlarne: era necessario prenotarlo il giorno prima.
La stessa sera, nella lussuosa casa di un ufficiale superiore, dove mi recavo per scambiare poche nozioni di latino con qualche ora in più di libera uscita, tutta la famiglia commentava la notizia che mi aveva emozionato e fui costretto ad ascoltare un’accanita discussione, che in un certo senso mi fece piacere, su La mia casa di campagna da loro ritenuta la seconda casa dello scrittore, per cui i miei tentativi per far conoscere il vero significato, oltre che l’aspetto letterario, del libro furono vani.
Più tardi, scendendo a piedi da via Petrarca verso piazza Municipio per prendere il filobus che mi avrebbe riportato in caserma, ripercorsi i momenti che avevano scandito la scoperta e la lettura delle opere prima, poi la stesura della tesi e gli incontri con lo scrittore, e mi proposi di tornarvi sopra appena mi fosse stato possibile.
Il mese successivo fui rispedito in Sicilia – provenivo da Trapani – e nel tratran della vita militare, a Palermo prima, poi a Caltanissetta, dimenticai completamente Comisso. A settembre, quando fui congedato e tornai a casa, trovai una copia dell’antologia di Comisso che avevo curato per Mursia insieme al prof. Guarnieri. Gli telefonai a casa e in Istituto per ristabilire un contatto che si era interrotto l’anno precedente, ma non riuscii a trovarlo.
Mi misi allora a sfogliare il libro per controllare se era stato rispettato il commento e la scelta dei brani e finii col rileggere il racconto su Segesta, perché mi ricordava una splendida serata dell’estate precedente col teatro greco gremito di spettatori che assistevano al Liolà di Pirandello e la doppia immagine del tempio proiettata dai potenti gruppi elettrogeni dell’esercito piazzati ai lati sulle colline circostanti.
Mentalmente confrontai quel ricordo con le scarne notizie e la descrizione di Comisso che vede nel tempio un elemento eterno della natura, in quanto fatto della stessa polpa del monte e modellato dalla pioggia, dal vento e dal sole come quello. Trovai le parole semplici di quella paginetta tanto affascinante che non solo dimenticai la folla, i fasci di luce che ingigantivano le ombre del tempio, ma perdonai facilmente lo scrittore per aver dimenticato quasi completamente gli asini largamente diffusi in tutta la Sicilia per ricordare i muli.
E fu quella stessa pagina a richiamare alla mia memoria l’ultima immagine dello scrittore avvolta da un’ombra di tristezza che l’affabilità della conversazione non era riuscita a mascherare. Poco alla volta misi a fuoco il luogo, i personaggi che l’accompagnavano e gli argomenti di cui avevamo parlato.
Quell’estate ero partito da casa insieme ad alcuni amici con l’intenzione di visitare la Croazia, un paese che mi era diventato familiare nella primissima infanzia, perché mio babbo si trovava lassù per un motivo che ancora non capivo e ne era tornato con una valigia d’abete color seppia che avremmo usato come dispensa nell’ultimo inverno di guerra.
Durante il viaggio avevo pensato di fare una sosta a Feltre per far conoscere agli amici quella località e salutare il prof Guarnieri. Per quanto la città fosse più affollata delle altre volte in cui vi ero stato ne rimasi un po’ deluso, soprattutto perché a casa del prof non trovai nessuno.
Prima di riprendere l’autostrada, ci fermammo a fare rifornimento a un distributore e io ne approfittai per chiamare Comisso, ma il telefono squillò a lungo senza che nessuno rispondesse. Quando tornai all’ auto, capii dalle risate con cui venni accolto che il nostro programma aveva subito un cambiamento: dovevamo andare a Vittorio Veneto per passare qualche giorno con le ragazze di una 125 grigia che ci facevano segno di seguirle.
Nonostante la modesta camera che ci fu assegnata nel loro albergo, passammo un paio di giorni di spensierata allegria. L’ultima sera andammo a cenare in quello che passava per il ristorante migliore del circondario. Al tavolo vicino al nostro erano sedute sei persone che chiacchieravano animatamente ma senza alzare la voce, in netto contrasto con la nostra chiassosa compagnia.
A un certo punto il signore corpulento che mi dava le spalle si girò per sussurrare qualcosa al suo compagno e il suo profilo mi confermò l’idea balenatami poco prima, quando aveva fatto l’elogio di un fiume (mi fa sentire signore della città): era G. Comisso. I due signori che gli stavano di fronte discutevano in modo pacato, ma i giovani seduti ai lati intervenivano sempre con toni pungenti, non capivo se per stimolare la conversazione o provocare la reazione degli altri.
Quando l’autista si alzò per portare fuori il cagnolino, mi feci riconoscere e gli chiesi se era possibile salutare lo scrittore. Si ricordò immediatamente di me, ma mi lasciò capire che la discussione era piuttosto tesa, per cui mi consigliò di aspettare che se ne fossero andati gli ospiti.
Dai gesti e dagli sguardi con cui la compagnia si sciolse, capii che non tutti i discorsi dovevano essere stati piacevoli: nei gesti dei due uomini vidi cortesia e rispetto, ma i giovani salutarono freddamente Comisso, sul cui volto scorsi una serietà che non gli conoscevo.
Appena mi vide, mi chiese di Guarnieri e mi invitò a seguirlo in un locale vicinissimo e tranquillo, dove si poteva gustare del picolit altrove introvabile. Di quel posto ricordo una facciata su cui spiccavano il bianco della calce e il rosso dei mattoni, oltre ad una lunga cascata di gerani e una musica lentissima.1
Il cameriere ci preparò un tavolo all’esterno e Comisso spostò più volte la sedia per trovare la posizione da cui potesse vedere quello che accadeva tanto intorno a noi che nella sala interna, quindi si allentò la camicia bianca sul petto e cominciò a parlare. Ad anni di distanza non mi è facile ricordare con precisione quello che disse.
Ricordò una telefonata di Guarnieri che lo aveva ragguagliato sull’esito della tesi, poi riprese in tono ironico una critica che circolava, così pensai, tra i suoi nemici: Comisso da vecchio ha cominciato a scrivere i libri con le forbici e la colla! Non capivo però se si riferisse ai ragazzi che avevano cenato con lui o a qualcun altro.
“Un tempo li avrei annientati con due battute. L’Italia letteraria è fatta così: tutti vanno dietro al primo che canta, mentre le persone per bene parlano poco.”
Era amareggiato per le parole di uno dei ragazzi che non si era mostrato riconoscente per l’aiuto che gli aveva dato; insistette poi sulla saggezza e la generosità di uno degli anziani, ma non sapendo chi fosse né di cosa avessero parlato, non afferrai pienamente il senso delle sue parole. Il tono della sua voce era risentito, ma bonario.
Passò poi a parlare della sua età e degli acciacchi che gli impedivano di vivere come un tempo. La cosa non era grave in sé, ma per le conseguenze che ne derivavano: non riusciva più a trovare gli stimoli per il suo lavoro. Ogni tanto scriveva ancora cose buone, come il racconto pubblicato pochi giorni prima sul Gazzettino, ma gli capitava sempre più di rado.
Mentre parlava, portò il bicchiere all’altezza degli occhi e fece ruotare lo sguardo dall’interno del locale alle persone che sedevano intorno a noi. Fissava il bicchiere come se non lo vedesse e, quando lo posò, si mise a guardare con insistenza gli occhiali che avevo posato sul tavolo. Non ci vedeva bene? Stava perdendo la vista?
“Una volta non li portavi. Col tempo cambiamo tutti. Ho il cruccio di non risolvere più i problemi come una volta. Dalle mie nuove responsabilità mi attendevo l’opera nuova, ma questa storia non mi si presenta in termini narrativi e ogni volta che provo a scriverne, trovo un intoppo che non mi fa andare avanti. Forse l’opera nuova che aspetto non verrà mai. Cosa ne pensi?”
Il suo volto aveva una fissità distesa, ma il corpo sembrava pervaso da un’inquietudine che le volte precedenti non avevo notato. Mi sentivo a disagio, non sapevo cosa rispondere. Menai il discorso per le lunghe, gli dissi che le sue opere migliori sono quelle in cui ripensa i momenti più intensi della sua vita che coincidono con le vicende più importanti della storia italiana e finii col parlare di una descrizione affascinante della realtà. Rispose che certe cose le sapeva bene, però pensava che fosse giunto il tempo di volgersi in un’altra direzione.
“Non ho scelto come vivere: certe convenzioni mi ripugnavano e le ho rifiutate, ma gli aspetti che mi attraevano li ho conservati senza pormi problemi, con decisioni improvvise. Vorrei scrivere un libro su questa mia ultima stagione, ma mi sembra di tornare indietro, perché l’ho già affrontata per mia madre. Ho un’età che non credevo di raggiungere e di cui ora sento tutta la serenità. Quando qualcuno riuscirà a capire l’importanza che mia madre ha avuto nella mia vita e nella mia opera? Mi è mancata e mi manca. Sto preparando un nuovo volume delle mie opere, un libro con un significato particolare. Scrivimi il tuo indirizzo – mi porse il cartoncino su cui poggiava il suo bicchiere –, quando uscirà te lo manderò.” Questo più o meno è il senso del discorso più lungo che fece col volto offuscato da un’ombra di tristezza.
Prima di alzarci, tornò sui discorsi che aveva sentito durante la cena, così almeno mi parve di capire, e parlò dello spirito dell’artista che deve innalzarsi sopra il comune sentire, se vuole raggiungere i vertici dell’opera d’arte. Mi chiese se ero d’accordo e io mi limitai ad annuire.
Si lamentò dei critici che, nei suoi confronti, utilizzavano i criteri che avevano sperimentato sugli scrittori vecchi, senza capire che non erano adatti per giudicarne uno nuovo come lui. Da tempo aspettava qualcuno capace di sgomberare il campo dai pregiudizi. Era sempre stato amico di pittori e scultori, aveva sempre fatto con le parole quello che loro facevano coi colori o altri materiali, perciò voleva essere giudicato con gli stessi criteri che usavano per loro.
Cercai di cambiare discorso, ma ormai pensava solo ad andare a casa per godersi il fresco della notte, “una cosa buona per vivere, non per scrivere.”
(Vietina, ottobre 1969)
1) Sono ritornato lassù nel ’76, alla vigilia del terremoto del Friuli, con due quinte di Elettrotecnici, per visitare la centrale di Fadalto. Ho ritrovato i due locali ed ho parlato coi gestori, ma nessuno sapeva chi fosse Comisso né se avesse mai villeggiato, pranzato o cenato da quelle parti. Alla fine ho ritrovato il cameriere che ci aveva servito. “Lo conoscevo bene, ma da qualche anno non viene più”, mi rispose, quando gli chiesi di lui.