Piazza Comisso presenta in queste settimane che precedono il settantesimo anniversario della morte di Gino Rossi – avvenne il 16 dicembre del 1947 – alcuni articoli e saggi sulla straordinaria figura del grande pittore trevigiano .
Dopo il Commiato di Giovanni Comisso a Gino Rossi, riproponiamo oggi il ben documentato saggio storico di Luigi Urettini “L’ultima battaglia di Gino Rossi, lettere e documenti”.
Quando si parla di Gino Rossi la prima domanda che ci si pone è: “cosa lo portò a passare gli ultimi anni della sua vita in manicomio?
La versione più diffusa, quella per cui tutto iniziò da una lunga depressione causata dalla fuga della moglie con un ufficiale dell’esercito, viene in questo saggio completamente smentita. Non corrispondono i tempi: il periodo di maggior successo venne proprio dopo la separazione. Peraltro la moglie non fuggì con un ufficiale dell’esercito, bensì con uno scultore.
Cosa, allora, trasformò l’uomo che, come racconta il mercante d’arte Giorgio Zamberlan, intratteneva gli amici al Ristorante Bolognese di Piazza Pola:
“In una saletta accanto si radunavano Gino Rossi, Martini, Bepi Fabiano, Arturo Malossi ed altri amici. Qualche volta ci si riuniva insieme. C’era un pianoforte in quella saletta, e Gino Rossi, anche lui reduce da Parigi e da un soggiorno in Bretagna, cantava accompagnandosi le canzoni bretoni dei contadini, che aveva udito a Douarnenez al ritorno dai campi alle loro case. Nenie deliziose che ravvivava battendo due zoccoletti tra un refrain e l’altro”.
nell’uomo del bosco, come lui stesso si definisce:
“Ciano, caro Dario [De Tuoni], è sulle rive del Piave – ma io, invece, sto su, ben in alto, in cima al Montello – e qui la sera e la mattina mi godo il panorama della Libertà sconfinata. Pensa: sconfinata! Potrei qui fare pittura in camicia e anche… senza. Non ci sono villeggianti – non ci sono che i miei due cani; qualche contadino che passa, ma raramente… Sono diventato l’uomo della natura, l’uomo del bosco (Montello), un quasi vegetariano, non conosco più vino né liquori e sono sulla strada di rinunciare anche alla fedele… Macedonia! Non vedo giornali. Non so più di botte tra fascisti e comunisti, non leggo più le critiche di Ojetti e Damerini. Si acquista salute e intelligenza”.
o nel “matto”, come quando lo molestavano i ragazzi del Montello?
Il saggio di Luigi Urettini dà una risposta precisa e convincente chiarendo l’evolversi della vicenda umana e artistica e soprattutto mettendo a fuoco il nodo chiave rappresentato dal rigore intellettuale e l’intransigenza morale di Gino Rossi.
Occorre innanzi tutto considerare che Rossi era, prima ancora che pittore, un intellettuale curioso che cercava in tutti i modi di cogliere lo spirito del tempo. Annota Dario De Tuoni, giovane scrittore triestino che si era formato a Firenze nell’ambiente de “La Voce”, buon conoscitore delle letterature europee, particolarmente tedesca e francese, con interessi verso l’Espressionismo e il movimento Dadaista:
“Alle volte me lo vedevo comparire a casa, e allora, rovistata la pila dei libri che torreggiava sul tavolino, ne prendeva qualcuno a prestito: o un volume del Laforgue o uno del Coquiot o qualche numero di “Esprit Nouveau”, la rivista diretta dal Le Corbusier e dall’Ozenfant, organo del purismo, che rifletteva le nuove tendenze artistiche dell’immediato dopoguerra”.
C’è poi da tener conto del contesto storico, dei grandi movimenti che contrassegnarono l’arte della fine del XIX secolo e dell’inizio del XX: dall’impressionismo al post impressionismo, dai futurismo al cubismo. A noi sembrano, pur nelle loro specificità, un’unica grande onda che crea una frattura con l’arte del passato, ma non era questo il pensiero degli artisti di quel tempo. Le distinzioni ed i conflitti intellettuali erano profondi.
“Caro Nino, [Barbantini, 1921] … Quanto a credere che nell’Impressionismo sia la salvezza, io lo nego ormai assolutamente. Monet, Pissarro, Guillaumin ecc., ci avranno lasciato indubbiamente delle belle cose dal punto di vista del colore. Ma non si costruisce con il colore, si costruisce con la forma. Un’arte in cui il colore comanda dev’essere un’arte incompleta sin dalla base. Lo sforzo ostinato di Cézanne è stato durante tutta la vita quello di costruire dei volumi e subordinare il colore all’espressione della forma. Andare più innanzi, ma dipingere come prima di Cézanne è impossibile. Un pittore che non sente così è morto”.
Dopo gli anni anteguerra nei quali appare chiaro l’influsso di Gauguin sul nostro grande artista, ora il suo interesse si sposta su Cézanne e sul cubismo:
“«Cosa ne pensa lei Springolo del cubismo?». «Ho letto diversi scritti sul cubismo – risposi – ma non sono mai riuscito a capirci niente, li ho trovati tutti tenebrosi». «Ma veda, Springolo, se io ho un vaso davanti con dietro dipinto un fiore e devo ritrarlo, io che so che dietro il vaso è dipinto il fiore, se sono sincero devo far vedere il fiore e quindi scomporre il vaso». «Ma siccome io so ch’essendo il fiore nascosto dal vaso non lo posso vedere – risposi – io, invece, se sono sincero, non devo farlo»”.
Dopo la pochezza di tale risposta, osserva Urettini, Gino Rossi pone dei limiti ben precisi alla sua amicizia con Springolo, non rendendolo compartecipe delle sue sperimentazioni:
“Quando gli chiedevo che cosa stesse facendo, mi rispondeva con una certa aria di mistero sempre e soltanto ‘Composizioni’”.
Nemmeno più gli amici riescono ad essere degli interlocutori, anzi spesso sono critici sul suo lavoro. Giovanni Comisso in una recensione apparsa in “Camicia Nera” critica le sue opere, accusandolo di “cerebralismo” ed eccessivo “intellettualismo”, rimpiangendo i paesaggi che dipingeva nell’anteguerra. Sono le stesse obiezioni che muovevano a Gino Rossi Damerini e Barbantini nei loro articoli di qualche anno prima. Considerava “vecchio” lo sforzo da lui impiegato nelle sue sperimentazioni per risolvere “certi principi pittorici di espressione plastica”.
Gino Rossi risponde a Comisso, sempre su “Camicia Nera”, con un lungo articolo in cui espone in modo chiaro ed articolato la sua concezione dell’arte che deve esprimere la nuova epoca, caratterizzata dalla rivoluzione industriale:
“E quando l’arte cessa di essere della sua epoca, muore. Da quanto data l’avvento della società industriale? Cinquant’anni? Va bene. Essa ha trasformato il mondo e continua a farlo in modo miracoloso. Te ne sei accorto artista? Non si pretende che nei tuoi quadri tu faccia il ritratto della macchina per essere moderno. Anche in un paesaggio o in una natura morta puoi far sentire lo spirito che ti lega al tuo tempo”.
Confesso che la lettura di questa frase ha provocato in me una fortissima emozione. E’ una frase che esprime tutto il suo potenziale ancora oggi, in questa complessa contemporaneità tecnologica. E’ la frase di un Artista che è fuori del proprio tempo, un artista già proiettato nel futuro. Un’artista, un intellettuale, che difficilmente avrebbe potuto trovare interlocutori nella placida sonnolenza intellettuale della provincia veneta negli anni Trenta.
Di fronte anni di meditazioni e di sperimentazioni, del tutto solitarie, tra l’indifferenza, se non il disprezzo, degli ambienti artistici, anche quelli più vicini a lui, si sentì solo, sfiduciato:
“In questo ambiente nuovo, tutta la mia arte e quella degli altri mi sembra così vecchia, ammuffita e sorpassata da rinunciare sin d’ora a qualsiasi pretesa. Siamo fuori del mondo ed io povero, più degli altri. Non parlarmi mai più di esposizioni né di pittura.”
povero:
“Ti parlo sinceramente e senza fronzoli: qui non ho una stufa per scaldarmi, non ho vestiti, non ho denaro per comprarmi qualche bel libro del quale sento tante volte il bisogno: ho la soddisfazione di vivere in un paese magnifico, ma questa soddisfazione la pago caramente. […] Io mi trovo in guerra dal giorno che ho incominciato a far pittura, e di questa guerra sono disposto a subir tutte le conseguenze. Non ho più carta”.
sconfitto:
“La mia situazione è disperata. La mia testa è stanca”.
Studio storico “Gino Rossi L’ultima Battaglia. Lettere e Documenti” (Pdf)