Quale calore d’amicizia e quale amore per l’arte attorno ad Arturo Martini, a Treviso, negli anni che precedettero la Grande Guerra! Col pittore Gino Rossi, col poeta Carlo Dolce, colla scrittrice Nevra Garatti ed altri amici, credo si discutesse più noi d’arte, lungo le rive del Sile, che a Parigi nei caffè di Montparnasse. Martini passava col suo studio da una torre all’altra della città e tante statue creava, altrettante ne demoliva insoddisfatto. Sempre senza denari e sempre pronto a trovarli. Ricordo, un giorno, il giorno in cui fui presentato a lui, che aveva escogitato di fare le stampe con piastre di terracotta incise. Aveva le piastre, aveva la carta, ma non aveva il tubetto di colore. Andai a comperarglielo e con un manico d’osso di bastone da passeggio si diede a comprimere la carta sulla piastra e ne risultò un volto di pastorella che per il lungo guardare le sue pecore, ne aveva assunto la stessa espressione.
A Venezia vi erano le celebri mostre di Ca’ Pesaro, organizzate da Barbantini, e Martini con Gargioli e Scopinic sostenevano per la scultura e per la pittura l’imposizione eroica del rinnovamento. Venezia, la dormiente Venezia, prima della guerra, era artisticamente una città viva a cui corrispondeva Firenze, con La Voce e Lacerba.
Agli amici dico subito i difetti prima dei pregi, e difetti, Martini, ne ha, a mio giudizio, uno solo, sorto da un equivoco che ha lasciato sorgere per il suo pudore, per una sua ingiustificata umiltà. Uscito dal popolo, in un tempo in cui la forza delle classi sociali era severamente sentita, egli confuse il suo ingegno come mezzo per colmare il dislivello. Escluso da quella partecipazione alla media cultura che viene impartita nelle scuole classiche, e che un tempo fu conferma di distinzione per la gioventù borghese, nulla quindi sapendo nè di storia, nè di greco, nè di latino, egli inventò la retorica del suo parlare, dove fa, troppo pesare il senso, che ha perfetto, dell’eternità, di Dio e dell’arte, cosi come, escluso dall’avere una propria casa, volle sempre avere qualcosa di più: abitare in una torre. Per questo equivoco, generato dal presupposto di sapersi nato da un livello popolare, avvenne di lui come di Canova. Le statue giovanili di Canova fatte nella villa del suo protettore, dicono la sua grandezza pura e originale prima che andasse a Roma. Il giovane montanaro di Possagno, vista la scultura amata dai principi e dai cardinali, ritenne questa la sola da seguire, dimenticando come segno della sua umile origine le impronte formidabili di Orfeo e di Euridice.
Cosi di Martini esiste in Treviso una statua giovanile: Armonie, che ha voluto dimenticare, attratto dalle forme adorate dai grandi cenacoli, e il suo primo errore fu di non voler credere in se stesso; in quel se stesso umile e popolare, ma nuovissimo, per mettersi a fare statue alla Mestrovic, che allora era di moda. Pensò che Martini, come Canova, sia stato turbato dal gusto d’una società falsamente ritenuta superiore, per tradire i propri elementi originari, ai quali per pudore non ha voluto abbandonarsi in pieno. Ma per Martini basta una scrollata di spalle per far cadere questa polvere noiosa e sterile, e la sua genuina potenza può sorgere tuttavia pura come in quel felice attimo di creazione. Armonie è una statua di un esile giovanetto che da accovacciato si risolleva in ascolto. Non ho mai visto tanta dolcezza su di un corpo veristicamente ritratto nella sua magra struttura ed è un’opera di totale poesia. Poi Martini ha voluto lavorare alla Mestrovic, poi ha fatto il futurista, poi ha conosciuto Donatello, Verrocchio, poi i romanici, gli egizii, gli etruschi, i romani, i greci arcaici e furono conoscenze con le quali ha lottato terribilmente attratto dal loro fascino, ma con un segreto istinto di ribellarsi. Subiva le loro forme, seguendo il gusto dei grandi cenacoli, fraintesi come elementi di una società superiore nel cui ambiente non era nato, ma le corrompeva fino al disprezzo per passare ad altre tradizioni e sempre restio di pensare a quella che avrebbe dovuto partire da lui, quella che nei suoi giovani anni si annunciava con Armonie. Martini per questo equivoco ha perduto innumerevole tempo, coprendo di vane soprastrutture le sue opere, come Balzac certi Capolavori dove ogni donna dopo una efficace descrizione fisica viene paragonata a Giunone o a Minerva, e ogni uomo, lo stesso, ad Apollo o a Mercurio. E basta coi difetti, se questo si può considerare tale.
Grande valore di Martini è la volontà di lavoro. Se tutte le sue opere potessero venire raccolte non basterebbe la Galleria di, Milano per accoglierle. Le sue piccole mani, il suo corpo, non da atleta, hanno lottato contro tonnellate di creta e di marmo. L’ozio per lui è una sofferenza, l’ho visto lavorare con la fame alla gola, da giovane, sostenuto solo dal sorriso di sua madre e da una massima di Zarathustra scritta sopra il suo […] ai piedi delle Apuane, in condizioni che nessun operaio neanche negro avrebbe sopportato. Ma questo lo onora come uomo.
Come artista egli possiede un grande senso dell’armonia, dell’equilibrio, della misura e del peso delle masse, egli è un poeta geometra, un inventore di nuovi armoniosi teoremi: si pensi al Figliuol prodigo, ai Tobiolo, al Pastore, alla Femmina dei porti, all’Eroe d’Africa, e soprattutto al suo capolavoro, in questo senso, al bassorilievo per il Palazzo di Giustizia di Milano. Qui il gesto della Giustizia che bilancia le due parti si ridiffonde sublimizzato tra gli azzurri riflessi del marmo nelle vicende eroiche e umane del popolo, narrate densamente e pure così libere le une dalle altre, perché inquadrate in rapporti perfetti. Ed ogni episodio preso a sè, è tanto ricco e tanto profondo da bastare da solo a svolgere il tema. Qui poi sono minori le abituali sottomissioni alle forme d’altre tradizioni e in certi episodi rivela apertamente la sua anima segreta della quale è sempre così geloso.
La variatissima fantasia nella composizione è altra sua forza. Sembra talvolta che la sua ispirazione sia presa dai sogni. Nelle grandi statue, nelle piccole, nei bassorilievi è un torneo incessante di figure colte nel più strabiliante degli attimi.
La scultura contemporanea al suo raffronto fa ridere: le solite donnette con la mano sotto il mento, i soliti ragazzi con la mano al fianco, i soliti muscolosi in esibizione di forza. Martini va al profondo, va al mistero della forma umana ed è talvolta la materia stessa oscura e sacra che lo avvia verso l’incantesimo. Perché egli, prima, ancora del soggetto, ama la materia con la quale deve ricrearlo. Esiste una sua grande statua di certa pietra dura e gialligna, che rappresenta. un uomo prono, assetato, con la bocca protesa. L’opera non è finita: è un uomo che muore di sete, è una massa di pietra che aspira alla fresca acqua, qua e là è segnato l’impulso del suo genio, qui nulla è stato fatto d’uguale prima di lui, egli è un nuovo estro, è la potenza di Armonie divenuta matura e sovrana.
Di lui amo ancora certi bassorilievi, come La processione degli ossessi ed altri di argomento mitologico marino, dove l’espressione è raggiunta a piccole dosi di creta distribuite come pennellate alla Tiepolo: momenti di raffinatissima gioia, E così i suoi piccoli bronzi bizzarri, sensuali o aridi, ma compiutamente umani. A parlare delle sue opere non si fa tempo, tante egli ne crea senza posa, distanziando tutti e disorientando tutti. Quando era giovanissimo. diceva sempre di essere il più grande scultore d’Italia, e gli sorridevano increduli. Egli sentiva di esserlo o almeno aveva il senso della sua forza e sentiva di poterlo divenire. Oggi egli è il più grande scultore d’Italia e lo sarà per moltissimo tempo.
Giovanni Comisso
(Dicembre 1938)