Sceklung, marzo
La pianura si distende coltivata a campi fioriti di margherite; lontano si profilano le colline di Tung-kuan, dominate da una snella pagoda. La barchetta del lebbrosario attende vicino alla riva sdrucciolevole dei fiume.
I rematori rivolgono il saluto cristiano: Dio ti custodisca.
Forse sono lebbrosi non molto progrediti nel male, certo non hanno sanezza d’aspetto. Una cordicella celeste tiene appesa al loro collo una piccola croce. Vogano uguali, silenziosi e senza riposo. Le rive del largo fiume sono spoglie d’alberi. Una grande giunca risale il fiume seguita da un battello armato di cannoni per scorta contro l’eventualità dei banditi.
Da una riva una mandria di bufali aizzata dai pastori scende e attraversa il fiume. Poi su dal piano giallo delle acque appare l’isola degli ammalati orrendi. Si attracca alla riva e una voce franca e cordiale ci dà il benvenuto. E’ il padre Marsigny, il preposto a quest’istituto aspro e misericordioso.
L’oasi del dolore
In tutto il Kuang-tung pare che il numero dei lebbrosi salga alla cifra di settantacinquemila. Nella stessa Hong-Kong ve ne sono molti, ma le autorità Inglesi agiscono solo dietro denunzia. Il lebbrosario di Sceklung fù affidato alla Missione francese di Canton.
Il Governo cinese passa la misera somma di dieci cents, circa una lira, per persona al giorno e fornisce un presidio di soldati per impedire la fuga degli ammalati e le molestie del banditi. Fondatone di questo ospizio fu il padre Luigi Lamberto Conrardy nel 1907. Egli morì nel 1914 e chi ha assistito al dissotterramento della sua salma mi ha asserito che le sue ossa erano talmente corrose da non poter escludere che fosse, morto di lebbra. Era la sua ambizione.
Raramente la parola di Cristo fu interpretata con più calore. Nel Kuang-tung i lebbrosi sono messi in bando dalla famiglia e dal villaggio. Veri cadaveri viventi, peregrinano scacciati dappertutto. I loro nomi non esistono più: citarli sarebbe un disonore per la famiglia. Spesso vengono uccisi dai parenti stessi. Nelle ultime agitazioni comuniste sono stati rastrellati in massa, cosparsi di benzina e arsi. Padre Conrardy, già avanzato negli anni, ebbe l’idea di fondare il ricovero attuale. Pensò di raccogliere questi disgraziati, di proteggerli, di dar loro una fede e di redimerli dalle infinite brutture che il male porta seco. Elemosinò i fondi per acquistare l’isola prescelta, ottenne dal Governo cinese lo scarso aiuto. Dapprima completamente solo per un’opera sì ardua, poi aiutato da alcune suore per la custodia delle donne.
Non si trattava soltanto di curare lo loro piaghe, ma di distoglierli dall’accanimento al giuoco, dalla smania per l’oppio, dalle depravazioni e dal suicidio: unico mozzo fu di indurli al lavoro della terra.
Ma frequenti furono le sedizioni: essi volevano oziare, ritornarsene ad elemosinale e consumare il guadagno a loro piacimento. Erano lotte tremende che si scatenavano nell’isola.
Un apostolo di carità
L’estrema pietà del padre vinse sopra a questo massimo orrore umano. S’inginocchiava presso il morente dicendo: «Coraggio, fratello, abbi pazienza, presto tu sarai felice e un angelo divino». E lo abbracciava baciando il suo volto disfallo. A chi gli raccomandava la prudenza egli rispondeva:«Potessi ottenere una decorazione così bella; ma non ne sono degno».
Gli animi s’addolcirono. Parte dell’isola venne coltivata a risaie, parte a ortaggi e a gelseti. Le primitive capanne vennero sostituite con casette. Poterono allevare i bachi da seta e tessere il prodotto. Ogni camerata si elesse un capo, responsabile dell’ordine, della pulizia e direttore dei lavori. I prodotti eccedenti al bisogno vennero venduti, il ricavato suddiviso dopo aver pagato le spese di cucina e di ogni altro aiuto che deve venire dal di fuori. Ognuno ebbe il proprio risparmio: si comperò galline e porcellini.
Molti si convertirono: da furibondi divennero così pietosi da prodigarsi per raccogliere i cadaveri che di tanto in tanto le acque del nume portano giù e seppellirli nella loro isola. Attualmente vi sono settecento lebbrosi tra uomini e donne.
I Padre Marsigny, già missionario al Congo o nell’Isola di Giova, conosce le massime prove e succede al fondatore di questo lebbrosario animato da grande ardore di poter trovare maggiori aiuti nelle autorità per dare nuove perfezioni alla colonia.
Egli mi accompagna nella visita. L’aria è greve: il cielo fumoso si abbassa sulle acque o sulla campagna.
Dalla loggia della sua abitazione di mattoni rossi si scorge tutto il fiume sino al ponte di Sceklung: il panorama è malinconico.
Usciamo: sul cancello c’è un cane volpino di guardia, che pare imbroncialo e meditabondo; forse fiuta nell’aria l’odore della putrefazione.
«Dio ti custodisca»
Siamo nel recinto degli uomini. Sulla destra splendono le gombine di ortaggi e alcuni lebbrosi stanno accovacciali, intenti al lavoro.
Appena ci si avvicina, scambiano col padre, in cinese, il saluto d’uso: «Dio ti custodisca».
Il padre lo pronuncia in un tono canoro e animatore. Hanno i volti arrossati e gonfi, congestionati dal male, e il naso compresso, informe. Più avanti ve ne sono altri seduti lungo il fiume, che pescano. Al di là degli orti s’alzano le case costruite su pilastri per difesa dalle inondazioni frequenti. Da una lunga canna di bambù, tesa orizzontale, pendono e si snodano al vento grosso le bende per fasciare le piaghe.
Dalle case, con le finestre aperte, arriva un odore di marcio. Il padre mi dice: «Ecco l’odore particolare dei lebbrosi; oggi è più forte del solito». Passiamo davanti a una chiesetta: un coro sommesso si diffonde dalla porta semiaperta.
Entriamo, sono tutte donne che pregano: l’ambiente è azzurrino, nitido; qualche argento luccica sull’altare bianco di merletti; sulle panche stanno sedute le ammalate, piedi e mani avvolti in bende, volti gonfi e devastati, altri lividi estenuati; pure hanno i capelli ravviati e le loro piccole voci sono quasi serene nell’armonia della preghiera, che ora s’alza e ora s’abbassa. Montiamo per una scaletta sul ballatoio che unisce le diverse case a un solo piano.
Ogni camerata ha i suoi letti con zanzariera. L’odore acre è insostenibile: davanti a ogni finestra accoglie in pieno. Qualche mosca dal volo pesante si posa sulla ringhiera. Una stanza è adibita a laboratorio: vi sono i telai, e alcune donne dalle mani ancora intatte lavorano mute e sbalordite nello sguardo. A una interrogazione del padre, una sorride soavemente come non ho visto finora nessuna cinese sana sorridere. E’ una convertita da poco. In uno stanzone attiguo vi è il teatrino dove vengono eseguite delle rappresentazioni dai lebbrosi stessi.
Ma la loro grande passione è la radio. Padre Marsigny ha potuto farne l’impianto e dalle stazioni di Canton e di Hong-Kong sentono le esecuzioni di musica e di canto cinese dei teatri principali.
Il reparto degli uomini è tutto in una zona di frutteti in fiore: farfalle bianche e gialle svolazzano tra i rami e poi calano come oppresse su altri fiori di aiuole immiserite.
La casa dei moribondi
Alcuni stanno seduti ai piedi degli alberi, si guardano le loro mani rosse e lustre da cui sono cadute le falangi: le loro gambe ridotte all’osso pare non possano avere più moto.
La malattia è dolorosa solo in certi periodi e non è rapidamente mortale. Al di là del reparto degli uomini vi è una casa dove gli ammalati ridotti all’ultimo stadio vengono portati a morire. La luce stessa del giorno brumoso rende atroce l’aspetto di queste pareti corrose dal salso che racchiudono i morenti.
Peschi in fiore sono attorno, ma anche i fiori perdono il loro aspetto.
Una donna anchilosata e monca sta rannicchiata su di una piccola sedia, lo sguardo fisso tra le palpebre gonfie e le guance rigate di plaghe. Non sente la voce del padre che la saluta. Non se ne può sopportare la vista.
L’aria sembra fatta d’un liquido denso, la terra che si pesta è irriconoscibile. Pare che il luogo non possa essere congiunto al resto del mondo. La voce del padre, sempre calma e pastosa, mentre ci parla e ci spiega, trattiene dallo sgomento dell’irreale. Ma più avanti arrivano voci chiare egiulive: s’intravvede uno spiazzo tra i ciuffi di bambù, dove alcuni ragazzi giuocano al calcio. «Sono lebbrosi?». – «Ma sicuramente».
Chiudendo gli occhi pare d’essere vicino a ragazzi sanissimi; e, come in tutti i paesi del mondo, al momento del goal» le voci s’innalzano felici.
Corrono, si spingono, s’accaniscono dietro alla palla; hanno qualche benda alle dita e alle gambe dove sono apparse le prime piaghe, ma ancora le loro giunture sono valide. E’ solo morendo che guariranno.
Giovanni Comisso
Pubblicato sul Corriere della Sera il 23 aprile 1930