Se s’arriva di notte, l’impressione è desolante. Silenzio, strade deserte e pantanose, un porticato squallido; e solo dall’altra parte del porto un rumore quasi armonioso che fa pensare ad un luogo di ballo, ma invece altro non è che la centrale elettrica. L’unico caffè aperto ricorda quelli di terza classe di sperdute stazioni ferroviarie: i camerieri negri attendono che fluisca il cinematografo per servire mastica e succo d’uva. Cinema europeo. La quinta strada: il film della moda, e dell’eleganza. Il manifesto dà pena.
Ma l’alba risveglia il gridio frenetico degli scaricatori e subito ci si rallegra a guardare la folla leggera nel passo, l’azzurro del mare, il bianco delle case e delle vele dei sambuchi che arrivano, gli scaricatori s’eccitano al lavoro con grida alterne, litanie che dovrebbero rendere inavvertito il peso della fatica: anche altri indigeni che avanzano spingendo un carretto vuoto gridano allo stesso modo. Ad ogni approdo. l’Africa subito viene incontro con le sue voci aspirate e incessanti. I sambuchi dai bordi variopinti di rosso e di blu attraccano, sono pieni di marinai d’ogni età dal dorso nudo e rilucente che manovrano chiassosi. Poi i pesanti sacchi di dura curvano le loro schiene sulle gambe sottili; ma non mollano; paiono formiche.
Il mercato ci attrae. Le strade odorano d’incenso, altre soffocano col loro fetore di serraglio e di grasso bruciato. Strada dei sarti, strada dei fabbriferrai, strada dei macellai. Ombre e sprazzi di sole violento. Ogni bottega riversa sulla strada la propria merce. Tende disgiunte riparano a malapena dal sole. Trattorie popolari invase dal fumo, con grandi catini pieni d’intingoli piccanti e di gialli risotti. Botteghe di droghieri con accurati piatti d’incenso, di henné, di piombo grezzo, di soda, di zolfo, di pepe e di sale, e garzoni che si divertono a travasare il burro liquido di cui appaiono unti alle braccia e al volto. Nei caffè indigeni a più tavoli si accaniscono i giuocatori di domino, le grida s’accompagnano al ticchettio delle tavolette d’avorio: sono abilissimi. L’incenso brucia ad ogni angolo, nella trattoria, dal barbiere, dal pizzicagnolo, dal macellaio. I sarti preparano bandiere del Profeta per segnalare la direzione della Mecca nei luoghi di preghiera sparsi per la campagna.
Folla leggera, vociante, bisticciante, In questi mercati africani c’è sempre qualche donna impazzita che attacca brighe coi venditori e coi passanti; e mendicanti meravigliosi! Una vecchia consunta, avvolta fino al capo d’un manto di un rosso sbiadito, protende la mano, sperduta nello sguardo e accasciata nella polvere. Passano portatori superbi. Questo ragazzo snello, appena coperto d’un drappo giallo, che regge all’altezza del capo come per ripararsi dal sole un grande piatto di sedani verdi. E più avanti tra la luce e l’ombra delle piccole case, dietro alla signora europea, la giovane serva con la cesta sulla spalla, imbizzarrita nello sguardo fosco, adorna di tela bianca che ondeggia e si solleva con piccoli fremiti alla cadenza del passo scalzo. Il nerissimo Dàncalo porta una pelle di leopardo, il pescatore con le gambe imbiancate dalla salsedine grandi pesci azzurri e rossi appesi a un bastone.
Miscuglio di razze difficile a trovarsi altrove. Abissini, Dàncali, Yemeniti. Berberi. Somali, Ebrei. Arabi di passaggio per andare alla Mecca. Dàncali dalle folte chiome, Abissini eleganti vestiti di bianco, coi pantaloni stretti, mantello e casco tropicale. Contadini dai mantelli giallastri che camminano a due a due presi per mano, come per un’abitudine rimasta dall’infanzia. Qualche vecchio signore solenne con la figura alta e ossuta e la bianca barba appuntita con un profilo da Pantalone veneziano. Poi improvvisa tra la folla, sbuca e appare stupenda la perfetta grazia d’un bambinello sorridente e seminudo o d’una bimbetta dalle spalle esili come alette d’un uccellino e già tutta femminea sotto alla sua tunica azzurra. Fermento di razze, fermento di colori, profumi e puzze: strade delle città africane per le quali ci resta poi per sempre un desiderio |di ritorno!
Solo a venti chilometri da Massaua (a otto giorni di piroscafo dall’Italia) si possono godere panorami e incontri con una fauna del più alto interesse. Né Marocco, né Algeria, né Tunisia, né Egitto, tanto esaltati dalle cronache interessate, possono reggere al confronto; eppure questa nostra non ricca colonia non osa sfruttarsi turisticamente. Gente ricca passa da Massaua per andare nell’India e nell’Estremo Oriente: il piroscafo sosta uno o due giorni e c’è tutto il tempo di fare una partita di caccia nei dintorni. Caccia inebriante per la bellezza della zona e per l’improvviso succedersi d’apparizioni di animali. Sensazione di terra africana, terra che veramente entusiasma, con animali asserviti solo alla vicenda della luce e della temperatura! Ma all’arrivo del piroscafo nessuno viene a proporre qualcosa; e cosi va perduta un’occasione di far entrane denaro altrui in questa terra che è nostra.
Usciamo da Massaua sulla strada che porta ad Assab. Il camioncino sfugge sui sabbioni rasati dal vento, passa guadi, corre sulla strada per massima parte naturale, oltrepassa il villaggio indigeno inseguito dalle strida dei ragazzi. Il terreno verdeggia: è un’illusione di primavera al susseguire delle piogge. I panorami si fanno ampi ed esaltativi. Il mare si distende azzurro e verdastro sotto l’ombra delle montagne protese. Sventolano le bandiere del Profeta sui piccoli recinti di preghiera lungo la strada. Colline di roccia grigia si susseguono una dopo l’altra in fila, sulla destra. Volo lento di falchi in cielo e passi frettolosi di indigeni erranti. Stormi di rosee ibis ferme sugli acquitrini, cicogne in volo, pellicani dal becco abbondante che prendono pesantemente l’abbrivo. Mandrie di zebù e frotte di capre coi loro pastori. Non siamo ancora nella zona della vita libera. La strada prosegue attraverso a torrenti asciutti, che alla minima pioggia ingrossano col fragore della valanga; la pianura è tutta adorna di acacie ombrellifere ora alte ora basse. Presto non più capanne, non più luoghi di preghiera, non più pascoli, non più indigeni in cammino. Le montagne aspre e bizzarre s’illuminano di luci verdi e violacee, le nubi s’agglomerano e si disfano rapidamente ai venti balzani. Il fondo della valle è tagliato in tutti i sensi da tracce di acque violente. Lontano, dalle pendici d’una montagna, s’alza e si addensa una vasta nube rossastra, simile a un polverone che preceda la tempesta. È una nube di cavallette, le andiamo incontro; uno stormo di falchi le vola di conserva e si ciba. L’avanguardia già ci investe, volano come grosse farfalle, il cielo si vela come a una caduta di neve. Sfarfallano, precipitano, invadono l’interno del camioncino, ci cadono addosso, attorno è tutto un fremito d’elitre. E’ la distruzione che passa. Dove sostano, il verde dispare come sotto a una fiamma, le acacie diventano sterpi. La nube vola in lungo e in largo sulla valle con brevi soste. Sono state avvistate le prime gazzelle e ci si ferma. I cacciatori avanzano a raggera nascondendosi dietro ai cespugli. Tra uno scenario e l’altro di acacie, passa lontano un gruppo di gazzelle agile e lieve: ci sentono, si fanno curiose, erte le teste sui colli gentili, guardano i cacciatori avanzare, passano dietro alle acacie, riappaiono sul terreno verde, sono sette, otto, dieci; i cacciatori sparano, due cadono e si dibattono, le altre, fuggono veloci.
Le cavallette ripiombano su di noi, a migliaia sono impigliate tra le spine delle acacie, il terreno ne è tutto coperto. i cacciatori si disperdono verso altre mute. La valle rintrona di tanto in tanto di colpi. Nell’alto silenzio ogni fruscio si fa intenso e meraviglia. Quale piacere calcare questa terra d’Africa acre e sconvolta! Avvoltoi grandi come aquile scendono dalle cime dei colli con volo rasente alle acacie. Le nubi s’addensano sulle montagne, la pioggia s’avvicina, scroscia, mette in fuga le cavallette. I cacciatori sparano di tanto in tanto, poi ritornano trascinando le gazzelle uccise. La sera discende. I falchi calano sugli alberi, i grandi avvoltoi risalgono sulle vette dei monti, frotte di gazzelle si sbandano verso occidente inseguendo la luce e le cavallette fluiscono sotto agli alberi per fremere in amore. La luce si accorda con le fronde basse e distese delle acacie. Il silenzio diviene profondo; poi, scomparsa tutta la luce, s’alza lo stridio immenso del grilli, rotto dall’ululare delle iene.
Si respira il profumo dell’Africa nel modo più gradito e più comodo. Siamo a soli tre quarti d’ora da Massaua e a otto giorni dall’Italia.
Giovanni Comisso
da Il Corriere della Sera del 17/01/1930
Immagine in evidenza: Historic center of Massawa (foto di Reinhard Dietrich)
Tutte le immagini: fonte Wikimedia Commons