Macao, febbraio
La rada profumata è ormai alle nostre spalle, seguiamo Giovanni Comisso alla volta di Macao. Ci aspetta una sorprendente lezione d’arte…
Chun vive a Macao in riva al mare fermo e latteo. Lo sapevo possessore di una fra le più ricche collezioni di porcellane e di dipinti cinesi e desideravo conoscerlo.
Nel 1922 era stato governatore civile di Canton; suo padre fu mandarino e ambasciatore imperiale, egli venne educato in America, ma conserva profondamente tutti i più raffinati caratteri e le passioni della sua razza. Uomo politico attualmente in disparte fu e rimane un discreto pittore.
Nella sala dove lo attendo, mezza arredata all’europea e mezza alla cinese, vedo appese alle pareti grandi strisce di stoffa blu con stampato in bianco questa parola: Yale. Sono gagliardetti d’una Università americana dove suo figlio studiava. Il figlio è morto e in un angolo vi è un altare alla sua memoria con fiori, Budda e bastoncini di sandalo che bruciano.
L’ospitale casa di Chun
Chun avanza leggero senza dar segno del suo passo, vestito d’una tunica di seta, sigaro tra le dita: uomo sulla settantina, scarno, modellato con finezza alle tempie, sopracciglie nere rialzate, sguardo luccicante.
Nella sala vi sono alcuni suoi dipinti. Egli stesso s’è composto i colori, mi spiega certi complessi d’armonia che al nostro gusto non fanno nè caldo nè freddo. Un suo dipinto rappresenta il Taoismo, il Confucismo, coi loro rispettivi profeti che offrono delle nespole acerbe a Budda, ma costui le rifiuta.
Nello sfondo, su da un blocco di roccia coperto qua e la d’erba s’alza un albero con le sue foglie. Ora secondo lui bisognava osservare e apprezzare come nel quadro fossero rappresentate non solo le tre religioni diffuse in Cina, ma anche le tre diverse forme di scrittura cinese; forme che dal loro aspetto si chiamano: della roccia, dell’erba, delle foglie.
Ancora davanti a un dragone irato su sfondo grigio di nuvole, egli dice che farlo con la bocca aperta non è tanto facile come farlo con la bocca chiusa.
Non voglio contrariarlo col ribattergli che per un artista o tutto è facile o tutto è difficile, tanto più che egli con amabile sorriso volle insegnarmi subito questo proverbio cinese: «Se sei drago avrai fortuna, se sei verme non l’avrai».
Passiamo al piano superiore. C’è una grande stanza divisa da una mezza parete di legno. Di là si sente qualcuno muoversi, egli dà una voce e ne esce una donna di mezza età, coi capelli tagliati alla bebé, la sua quinta moglie. La signora ha un aspetto casalingo: mi invita a sedere a una tavola accanto alla finestra. Fa gli onori di casa, mi offre delle sigarette e il tè.
Una pinacoteca eccezionale
Chun mi domanda quanto mi fermerò a Macao, perché per vedere la sua collezione occorre almeno un mese. I Cinesi non usano tenere dipinti, bronzi e porcellane esposti nelle stanze o in gallerie come noi: tutto è tenuto entro scatole di latta e solo per la venuta di ospiti si espone qualche pezzo notevole. Incominciamo dalla pittura. Grande parte delle sue strisce proviene dai Palazzi Imperiali e porta impresso in oro il timbro d’esecuzione espressa per l’Imperatore.
Ho veduto solo dieci meravigliosi esemplari tra il Trecento e il Quattrocento, del valore medio di 500.000 lire l’uno: alcuni salvati dai monaci buddisti durante le invasioni tartare.
Ci si ritrova come davanti agli affreschi dei nostri primitivi: come in essi, manca il senso del distacco e della prospettiva. Vivissima è l’espressione, mirabili l’equilibrio delle figure e l’intonazione dei colori.
Una Quanjn, o dea della maternità, ritta in piedi, serena con le palpebre abbassate, bianca in volto, al petto e alle mani affusolate sovrapposte l’una sull’altra un’altezza della cintola, col suo manto dove ritornavano tra i risvolti certi verdi riposati faceva fortemente pensare a Simone Martini e a Tommaso da Modena.
Chun non ha visitato l’Italia: sa che vi sono grandi opere d’arte; per renderlo felice bisogna dirgli che non vi sono cose tanto belle, ed egli abbassa per compiacimento il suo sguardo avido e furbesco.
In un altro dipinto, una specie di contadino barbuto e irato, mi fa notare come la bellezza consista nella sicurezza delle linee. Alcune per rendere le pieghe del vestito scendono e rimontano senza che il pennello sia stato sollevato dalla seta: questo, per lui, è un grande pregio. Ciò sfugge al nostro godimento. Noi chiediamo all’artista la riproduzione del mondo e poco ci importa se ciò in pittura ci viene dato con segni interrotti o continuati. Per il Cinese invece no. Un saggio calligrafico vale quanto un disegno.
Lezione d’arte cinese
Non di meno tra le quinte di tali loro propositi artistici, che noi annoveriamo come decadenti, scappano fuori potentissimi elementi di realismo e di passionale personalità, tanto prepotente è la volontà del mondo a farsi rappresentare dagli uomini. Una principessa suonatrice di flauto, presa nello stesso tempo come da un estro di danza, era una meraviglia gustabile a pieno con occhi occidentali. lo dicevo: «C’è la vita ». Chun insisteva a farmi vedere la linea estrema del manto come filava sicura dalla cintura fino al rimbocco dato dalla cadenza del corpo. Egli arrotolava con cura ogni striscia, la riponeva nella guaina di latta : sua moglie lo aiutava.
Prima di passare alle porcellane accese un secondo sigaro. Frattanto nella stanza attigua si sentivano alcuni ragazzi ridere e venir ogni tanto a spiare. Vennero chiamati, erano due suoi nipoti appena decenni.
I neri capelli ravviati, gli occhi incuriositi e fermi, rispondevano al nonno con voce leggera ma armoniosa a ogni parola. Il cinese è una lingua cantata: una stessa parola muta significato secondo l’accentuazione e il tono, se alto o basso. E’ tutta questione di orecchio per comprendere. Bambini e donne quando parlano pare che si abbandonino al canto.
Ad ogni parola del nonno i due bambini drizzano le teste, attenti, pronti a percepire.
La collezione di porcellane comincia con esemplari del mille. Direttori di musei americani sono venuti espressamente per vedere alcuni suoi pezzi che sono unici al mondo. Una collezionista aveva offerto somme pazzesche per un vasetto di cui ella possedeva il gemello.
Un tesoro fragile
Ora sono i nipotini che lo aiutano; sua moglie s’è seduta accanto alla finestra a fare un lavoro a maglia. Un vaso azzurro oscuro, con collo lievemente a calice, non tanto grande viene deposto dalle mani gelose, aride e affusolate di Chun al centro della tavola.
La luce lo illumina. Come da certe capigliature nerissime e lucenti, vengono fuori tocchi di azzurro. L’immediata bellezza e freschezza lo fa credere uscito ieri dalle mani dell’artefice.
E’ un vaso Sung di circa mille anni fa: non si osa toccarlo. Mi mostra come la colata sia perfetta alla base, alla bocca e nell’interno.
Si sono susseguiti tre vasi tutti dell’epoca Sung, la più antica, che da soli possono formare una fastosa ricchezza per più famiglie. Uno grigio perlaceo, un secondo grigio cenere e il terzo un celadon con anelli fissi alle anse, i più volte avvicinai la palma della mano senza osare di toccare, egli sorrise e mi spiegò che bisogna anche toccarli per apprezzarli.
E quando depose sulla tavola due piccoli vasi craquelés, pallidamente celesti, li accarezzò e disse che parevano due guance di bambini. Era riescito a trovare uno dei due dopo sedici anni di ricerche. Poi da i più cuscinetti estrasse una tazzina rosa; si diverti a farla vibrare battendola, con l’unghia e accompagnava la vibrazione leggera che si diffondeva nell’aria tamburellando con l’altra mano il legno della tavola.
Aspirava ingordo il fumo del sigaro, gli occhi luccicavano di gioia: la tazza era stata adoperata dall’imperatore.
Altre tazze d’epoca più recente portavano iscrizioni curiose, come: « Acquistata nella casa della felicità eterna », « Eseguita nella sala di giada meravigliosa », « Si scivola dopo la pioggia, ma il cielo è chiaro », «Eseguita nella sala dell’aurora», « Longevità pari ai monti del Sud, felicità al mare dell’Est », « Io sono veramente l’amico di U-Cian ».
Traduceva ogni frase e poi aspirava il suo sigaro avvolgendosi il volto del fumo azzurrino come una divinità che volesse scomparire. I nipoti riponevano le scatole di ferro nell’armadio, sua moglie continuava a intrecciare la maglia.
Da ultimo si volse verso il suo scrittoio,dove un volgare portacenere europeo stava lì quasi con prepotenza, e da un piedestallo di legno tolse un pesante disco di bronzo e recandolo con ambe le braccia lo depose sulla tavola. Era un antico specchio e sul rovescio era tutto un giuoco d’intreccio tra animaletti e frutta.
Poteva essere uscito dalle mani del nostri orafi del Rinascimento. Ma il pensiero ritornava alle porcellane. Nitide, non corrose, non intaccate dal tempo, giovani per sempre in mezzo a questo popolo smisurato cui sono sorte genuine!
Volti gonfi, avidi, lustri, che l’oppio impallidisce, la fame scarnifica e la lebbra corrode. Porcellane intatte e pure: eternità e bellezza.
Giovanni Comisso
Pubblicato sul Corriere della sera il 30 marzo 1930