Gabriele Dadati, piacentino, scrittore e letterato è stato finalista al Premio Comisso 2018 nella sezione narrativa con il romanzo ‘L’ultima notte di Antonio Canova’, edizione Baldini e Castoldi. Un libro che rivela una conoscenza molto approfondita della vita e dell’opera dello scultore veneto e, insieme, dell’epoca storica nella quale la sua vicenda artistica e esistenziale si è collocata. Napoleone e la sua seconda moglie Maria Luigia sono i protagonisti che si muovono nello sfondo dei saloni di Versailles, evocati dai racconti di Antonio Canova sul letto di morte in un palazzo veneziano.
Un libro dallo stile raffinato, composito, giocato su una lingua, coerente con la storia narrata, elegante eppure leggibilissima.
Chiediamo a Dadati come è accaduto il suo ‘incontro’ con Canova.
“Attraverso il mio illustre concittadino Pietro Giordani- amico di Leopardi – di cui mi ero occupato fin dalla tesi di laurea: Giordani aveva scritto il ‘Panegirico a Antonio Canova’ e da allora, nella ricerca del rapporto tra letteratura e arte figurativa non ho più lasciato la figura del grande scultore neoclassico.”
E’ stato dunque uno lavoro che è partito da una larga messe documentaria?
“Sì, dal 2012 mi sono dedicato corpo e anima a questo libro, stilando prima grandi grafici storici con date, avvenimenti, personaggi della storia reale. Ho constatato che fatte le debite differenze, Napoleone e Canova avevano alcune caratteristiche simili nella biografia – praticamente orfani ambedue – fragili quindi nelle loro radici eppure uomini del secolo, giganti.”
Ma la vicenda narrata nel suo romanzo ha una duplice identità: quella della verità storica, circostanziata nel dettaglio, e quella dell’invenzione, perfettamente integrata ma inconfondibile.
“Esattamente; il libro ha due filtri, quello diurno che corrisponde alla realtà storica e quello notturno che invece appartiene alla libertà dell’invenzione. Tutto ciò che accade di giorno è documentabile, la notte porta il crisma della fantasia”.
E anche quello del desiderio?
“Forse sì, ma succede tutto nelle parole, nel racconto di Maria Luigia che a sua volta è racconto di Canova. E poi c’è quell’attimo di rapimento di un Canova già in là negli anni; ho immaginato che potesse avere un autentico desiderio di paternità, di lascito carnale di sé, lui che, nella realtà, diede vita al marmo. Ma l’invenzione non entra mai in collisione con la storia: il processo creativo della scrittura ha generato una struttura che rispetta con rigore i margini tra invenzione e verità, perché non si scherza con la vita degli altri, anche l’invenzione narrativa deve essere rispettosa di un senso profondo della vita del personaggio”.
Ci sono figure minori nel suo romanzo che hanno un valore emotivo forte, mi riferisco ad esempio a Elia, il ragazzino che assiste agli ultimi attimi della vita dello scultore, al quale Canova cerca di insegnare i rudimenti della modellazione.
“ In quel ragazzino veneziano ho voluto riassumere l’attenzione che Canova aveva sempre riservato ai giovani, che fossero apprendisti del suo atelier a Roma o modelle, giovani contadine della campagna trevigiana.”
Il suo Napoleone ha due facce, di imperatore e di fragile umano.
“La prima è scontata, ma per la seconda, la dimensione di fragilità mi è derivata dallo studio delle lettere di Bonaparte a Maria Luigia, quando tutto è perduto, nel suo declino di uomo solo e esiliato, chiede di rivedere l’unico figlio.”
Un’ultima osservazione sulla lingua da lei usata nel romanzo, come si è formata?
“Il libro ha avuto 14 redazioni, ma la prima è stata scritta in poco meno di tre settimane. Ho tentato di elaborare una lingua neoclassica, per i miei personaggi, dalla superficie ‘polita’ come uscita dalla officina canoviana.”