Dino Buzzati nel Deserto dei tartari scrisse che per quanto si possa voler bene a qualcuno, nel dolore le persone sono sempre lontane,
«che se uno soffre il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé che una minima parte¸ che se uno soffre gli altri per questo non sentono male, anche se l’amore è grande e questo provoca la solitudine della vita».
L’amore che mi resta, l’ultimo romanzo di Michela Marzano, scandaglia la sofferenza senza fine del genitore il cui figlio decide improvvisamente di togliersi la vita. Se chi ha vissuto un’analoga esperienza può riconoscersi nella disperazione dell’altro ognuno resta, pur sempre, l’unico custode delle proprie ferite.
Nonostante la società riconosca sempre meno importanza al pudore, siamo soliti chiamare il suicidio “gesto estremo”. Come se l’ambiguità terminologica potesse attenuare, oltre alla carica espressiva delle parole, anche il loro contenuto drammatico, la valenza tragica dell’atto e delle reazioni a seguire. Come se le parole, rinviando a significati più gestibili e meno spaventosi, avessero il potere di richiamare indietro le azioni, di annullare il male. Scrive Marzano:
Il male lascia sempre senza parole. Se non lo nomini, non esiste. Se non lo chiami scompare.
E ancora:
Finché non si trovano le parole per dirlo, finché non lo si nomina, il dolore devasta.
«In nessuna lingua esiste un termine per definire i genitori che hanno perso un figlio» ci rivela l’autrice. La percezione di un ordine naturale o divino violato esaspera il dolore di chi sopravvive al proprio caro, ma forse la chiave di tutto, come sembra suggerire il romanzo, è nell’abbandono. Come la madre protagonista del libro, Daria, non riusciamo ad accettare, infatti, di essere privati dell’amore, del legame, che ci avvinghia a chi ha scelto di morire. Non riusciamo a rassegnarci alla solitudine, al fatto di essere stati lasciati per sempre da coloro ai quali siamo legati. Del resto, il primo bisogno dell’uomo è di essere amato, incondizionatamente.
Daria non riesce ad affrontare il peso dei giorni restanti sotto il flusso dei ricordi, dei mille se e dei mille ma. A farle compagnia solo pensieri a circuito chiuso, di cui diventa la complice più fedele. Non può permettersi di superare il dolore, di stare meglio, perché – almeno all’inizio del romanzo – è solo nella dimensione della sofferenza che riesce a trovare spazio tutto l’amore che le resta.
Daria, la protagonista del tuo romanzo, dopo una lunga trafila, riesce ad adottare Giada, una bambina che, una volta divenuta adulta, prende la tragica decisione di togliersi la vita. Il dramma dell’abbandono non risparmia nessuno in questa storia: segna l’esistenza di Giada alla quale manca un frammento indispensabile per completare «il puzzle» della propria identità; annienta Daria che alla figlia adottiva ha consacrato l’intera esistenza, nella vana speranza di ricucire gli strappi delle loro anime. Il dolore di madre e figlia coinvolge, in modo diverso, anche tutti gli altri personaggi del romanzo; ti va di parlarcene?
Quello che volevo raccontare era soprattutto il rapporto tra una madre e sua figlia. Raccontando la storia di Daria e di Giada, provo a dire quanto ciascuno di noi sia fragile, ma anche forte; magari pieno di fratture, ma disposto ogni volta a ricominciare. Anche i personaggi maschili, però, hanno una loro importanza e vivono fino in fondo il dramma della morte di Giada. Andrea, ad esempio, è il primo a capire che uno dei problemi che ha un genitore che perde un figlio è quello di non poter nemmeno essere qualificato: in nessuna lingua esiste un termine per definirlo; non c’è in francese, non c’è in spagnolo, non c’è in inglese, non c’è in tedesco, non c’è in russo. Non c’è nemmeno in cinese. Solo in arabo, forse, c’è una parola: un termine ormai desueto, di cui però resta traccia in un racconto antico. A un certo punto un guerriero, per sfida, dice ai nemici: si faccia avanti chi vuole che stasera la moglie sia vedova, i figli orfani e la madre thakla. Solo che ormai questa parola non si usa più.
Come si fa, d’altronde, a nominare l’innominabile? Come trovare una parola per indicare quel caos, quel disordine, quel qualcosa di assurdo e di assolutamente contrario all’ordine naturale delle cose?
«Le parole servono per mettere ordine nel mondo»; ne è convinto Andrea, il padre adottivo di Giada, che insegna letteratura. Da cosa nasce questa necessità, quest’urgenza – che chi scrive ben conosce – di fare chiarezza, di dare un nome e una forma a ciò che si sta vivendo? In fondo anche un certo grado d’incertezza, di caos sono connaturati al mondo.
Caos, incertezza e dolore sono effettivamente connaturati al mondo. Al tempo stesso però, come disse un giorno il grande romanziere francese Albert Camus, è solo nel momento in cui si nominano le cose in maniera corretta che si riesce poi a mettere un po’ di ordine nel mondo e a diminuirne la sofferenza.
È quello che ho sempre cercato di fare scrivendo: trovare le parole appropriate per dare un nome a quello che succede, anche quando ciò che accade è irreparabile e all’inizio si resta muti, nessuna parola va bene, nessuna parola può anche lontanamente fare eco a ciò che si prova. «Il cuore si è spaccato e non esiste più nessuna barriera tra me e l’abisso», dice Daria quando trova la forza per ricominciare a parlare, ma ancora non trova le parole giuste per dirlo. «L’intensità del dolore continua a sovrastare la forza. E non c’è pietà sufficiente a dire la pena», insiste. Prima di capire che la vita talvolta è impastata di mancanza – questo sconforto che poi diventa slavina, rabbia e paura, dolore cieco; questo vuoto che l’amore non colma, anche se l’amore è necessario, e senza amore si è morti, prima ancora di morire.
E realizzare così, forse per la prima volta nella propria vita, che l’amore, anche se non ripara nulla, è sempre senza confini. Ed è per questo che è perfetto.
Hai dichiarato che questo libro nasce dall’elaborazione di un tuo vissuto particolarmente doloroso. Come sei riuscita a ricreare la giusta distanza tra te e i personaggi del romanzo, affinché questa storia di sofferenza, ma anche di riscatto, potesse alla fine essere raccontata?
La vera difficoltà di questo romanzo è stata effettivamente quella di trovare le parole giuste per raccontare la storia della perdita della figlia da parte di una madre. Per anni mi sono chiesta cosa sarebbe successo a mia madre se, quella notte di ormai vent’anni fa, invece di risvegliarmi dopo molte ore di coma, fossi morta. Era la fine degli anni Novanta e non ce la facevo proprio a riemergere dalle tenebre in cui ero lentamente precipitata. Dimenticando completamente che, se fossi morta suicida come avevo scelto, non avrei distrutto solo me, ma anche mia madre.
Mi ci è voluto molto tempo prima di realizzare che, se quella notte me ne fossi andata via, forse nemmeno mamma ce l’avrebbe fatta.La storia di Daria e di Giada, una madre e una figlia appunto, è nata così.
Prima di diventare un romanzo non più, e non solo, sulla perdita, ma anche, e forse soprattutto, sull’amore e sulla maternità.
Un romanzo, però. In modo da allontanare il più possibile questa storia dalla mia personale esperienza. Scoprendo pian piano una scrittura potentissima e bella, capace di nominare le cose in maniera efficace e capace, molto più dei saggi o dell’autobiografia, di raccontare la complessità dell’esistenza.
In più punti del romanzo scrivi dei «segreti che avvelenano l’esistenza» e che impediscono alle donne di fare serenamente le proprie scelte di vita. Mi viene in mente quel vecchio film di Mike Leigh, Segreti e bugie, in cui solo quando la verità viene a galla in tutta la sua complessità ci si può, finalmente, sentire liberi.
So che come politica ti sei battuta sui diritti dei figli adottivi a conoscere le proprie origini e delle madri naturali a rinunciare all’anonimato. Puoi spiegarci quali passi in avanti sono stati fatti dalla legge italiana per contrastare quella odiosa «cultura della vergogna» che suscita lo sdegno di Giada nel romanzo?
In realtà pochi. Cioè. Alla Camera è stata approvata una legge che permette ai figli nati con parto segreto di chiedere al Tribunale dei minori, una volta raggiunta la maggiore età, di verificare se la volontà di anonimato della madre sia ancora attuale. Le norme attualmente in vigore nel nostro Paese pongono d’altronde l’Italia in situazione di infrazione. Nel settembre del 2012, siamo stati condannati dalla CEDU per il fatto di non rispettare i principi sanciti dall’art. 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo. “La nascita, e le circostanze specifiche di questa, danno risalto alla vita privata del bambino prima e dell’adulto poi”, si legge nella sentenza Godelli contro Italia, in cui viene spiegato con chiarezza come la conoscenza delle origini sia, per ognuno di noi, un elemento essenziale del processo identitario. Nel novembre del 2013, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale parte dell’art. 28 della legge del 4 maggio 1983 sull’adozione, chiedendo al legislatore di introdurre la possibilità di interpellare le madri come accade già in Francia – dove pure esiste la possibilità di nascere anonimamente (accouchement sous X). Questa legge approvata alla Camera, però, giace ora al Senato e, con molta probabilità, non sarà approvata prima della fine della Legislatura. Come si fa però a continuare a negare il dramma di tutti coloro che cercano disperatamente di avere accesso alle proprie origini? È ovvio che, in caso di volontà da parte delle madri di conservare l’anonimato, il legislatore non può far nulla per i figli nati con parto segreto. Ma perché negare loro anche solo la possibilità della speranza?