Mi sembrava già vecchissimo, prima della guerra, quando ci diede il suo commosso addio nel ritirarsi dall’insegnamento. Ricordo come il foglietto del discorso avesse preso a tremargli con la mano e, intorbidita la vista dalle lacrime, come fosse costretto a sedersi lasciando al giovane professore che gli succedeva il continuare la lettura del discorso. L’anno seguente sarebbe stato il mio professore di latino e di greco, egli, che lo era stato dei miei zii quaranta anni prima. Lasciata la scuola si dedicò completamente al Museo e alla Biblioteca comunale che erano già sotto la sua cura. Annesso un edificio all’altro, vi poteva comunicare dalla casa dove abitava, sì che Museo e Biblioteca erano come altre stanze della sua dimora, e ne teneva gelosamente le chiavi nelle sue tasche consunte.
Era abate e vestiva come gli abati di una epoca remota, di nero con pantaloni corti, calzettoni e una lunga giacca. Il suo corpo (mai questa abusata immagine risultò più esatta) aveva veramente qualcosa del vecchio tronco di quercia. Grossa e sanguigna la testa, salde le spalle sebbene ricurve; e l’incertezza del suo passo dipendeva più che altro dalla vista indebolita. La sua voce era instancabile e potente, la sua memoria nitida come la intelligenza fino alla morte.
Quasi centenario il suo tempo vissuto si fondeva coi secoli passati dove egli penetrava col suo studio. Una volta ebbi a parlare con lui di quell’esercito austro-russo comandato da Kutuzov che nei primi anni dell’ottocento scese in Italia passando per il Veneto, ed egli disse come se lo avesse visto: “Sì, sì, si sono accampati due chilometri fuori dalla città. Kutuzov alla mattina dava la sveglia i suoi soldati cantando da gallo“. La sua memoria era come quella dei dannati infernali, chiarissima verso i tempi lontani, per offuscarsi ai fatti recenti, e proprio come quelli sembrava anche potesse antivedere il futuro tanto era pronto ad accogliere giovanilmente certe nuove idee come fossero state da lui presentite.
Un giorno in cui andai a chiedergli le novelle del Bandello, non riescendosi a trovarle nello schedario, così di punto in bianco mi enumerò tutte le edizioni che ne erano seguite dai 500 fino alla metà del secolo passato: “Ultima che ricordo è quello del Pomba del 1856, in copertina azzurra e che costava una lira e cinquanta, poi non so altro“.
E mostrandomi alcuni vasi cinesi che erano nel Museo, alcuni anni fa mi disse: “Oh! Verranno riprenderseli! Non si sa quello che riserva l’Oriente. Quella gente un giorno si sveglierà, un nuovo Tamerlano si metterà alla loro testa e marcerà verso l’Europa“. così egli parlava e non si sapeva ancora come il Giappone fosse veramente in marcia per scalzare il commercio europeo fin dal bacino del Mediterraneo.
Nel parlarmi dei soldati pontifici venuti nel ‘48 nel Veneto a combattere gli austriaci, ricordava di essi con una vivacità fresca ed immediata che il fatto pareva fosse avvenuto il giorno prima. Allora egli non aveva che 13 anni e monellescamente si frammischiava alle truppe che avevano invaso la città: “Erano vestiti di una tela gialla e non portavano lo zaino, ma una specie di sacco. Gente simpatica, su, e allegra: avevano chitarre e mandolini e suonavano per le strade e poi andavano anche in giro con piattello se qualcuno voleva dare il suo obolo“.
Alla mattina si faceva leggere il giornale e spesso gli veniva letto che il tale era morto o che il papà dell’altro era venuto ad occupare una carica importante. I nomi gli sembrava di averli già intesi e allora rinvangava nella memoria per sapere se erano stati suoi allievi o figli di suoi allievi e quasi sempre si veniva a chiarire che costoro già avanti negli anni erano invece i figli o i nipoti dei suoi allievi, mentre questi erano da tempo scomparsi.
Per il museo egli acquistava tutto quello che gli portavano: “Non si sa niente, tutto può interessare, tutto può diventare buono“, diceva. Fu con questo sistema che gli riuscì di raccogliere un’importante raccolta di armi dell’epoca delle terremare, e di ceramiche della nostra regione. Ogni pezzo di ferro che fosse riapparso nelle cave di ghiaia vicino al fiume, ogni coccio trovato nel sottosuolo gli venivano portati dagli operai. Dava loro qualche soldo e si raccomandava che portassero tutto quello che trovavano. La fama che egli comperava tutto si era diffusa da anni nella città, tanto che per denominare una cosa di nessun valore si diceva dal popolo: “Bella roba! Portala al Museo“. E del Museo e della Biblioteca egli era un geloso custode. Nella vera congerie di armi, di stoffe, di oggetti, di pietre, di ferramenta , egli solo sapeva dove si trovasse la tal cosa ed aveva sempre timore che dovesse sparire. Sicché se si recava solo a girare per le sale ingombre aveva sempre cura di chiudere a chiave le porte che lasciava dietro.
Una volta che verso sera volle andare a verificare se un certo oggetto si trovava al suo posto, gli toccò di inciampare nelle scale e cadere giù rotolando fino agli ultimi gradini. Chiamò, gridò, ma nessuno lo intese; tutte le porte dietro sé erano chiuse, e allora egli, già vecchio di 90 anni, incapace di rialzarsi, si accomodo alla meglio per terra, e con la costanza di un giovane guerriero preso sonno, in attesa del mattino e del suo segretario che venisse al lavoro.
La mattina del giorno della sua morte, fu come al solito alla sua tavola di lavoro. Dettò al suo segretario una lettera per un giovane scultore della città le cui opere dai più erano giudicate come pazzesche tanto erano fuori dal gusto comune, ma egli invece disse che tante volte era avvenuto di non considerare come opere d’arte, opere che poi invece dai posteri furono considerate come somme, e volle scrivergli a questo modo: “La materia per sé sola è quasi cosa matta; solo il pensiero è sostanza; è il pensiero solo che crea, e l’artista deve essere creatore di cose nuove, delle quali è sempre avida l’anima umana“. La lettera proseguì lunghissima come era sua abitudine trattando sempre dell’arte. Poi diede alcune disposizioni per proseguire nella raccolta di documenti di interesse locale e subito volle scendere nel chiostro del Museo tra le sue pietre, le sue ferramenta, i suoi cocci, laddove l’estate gli era piacevole godere il fresco e addormentarsi su una vecchia poltrona commutando il suo sonno con quello delle cose infrante.
Ma all’ora di mettersi a tavola gli tremarono le mani, il bicchiere gli cadde, il vino arrossò la tovaglia, la serva accorse, il grosso capo si reclinò sul piatto; disse ancora: “È finito, è finito, me ne vado“. E morì.
Ritornai alla biblioteca qualche tempo dopo, la sala dello schedario riceveva la stessa luce dalle grandi finestre, quella sala che quando c’era lui dava l’illusione di vivere indietro di un secolo, vestito com’era, e il calamaio d’ottone davanti, con lo spolvero di limatura di ferro. La sua poltrona era vuota; la sala non era più quella: ad una parete vi era il telefono, cosa che egli aveva sempre giudicata inservibile, e al posto calamaio vi era una macchina da scrivere e le vecchie schede scritte con una calligrafia da penna d’oca, erano state sostituite con altre, secondo l’uso del nostro secolo, completamente dattilografate.
Giovanni Comisso
Pubblicato sulla Gazzetta del Popolo del 12 dicembre 1935 con il titolo “Il centenario”.
Museo Luigi Bailo
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