TRE ANNI FA
Potrebbe succedere, tra un po’. Oppure no. Potrebbe sparire la vigna di Goffredo Parise, a Salgareda. Si aggroviglia selvaggia a poche decine di metri dalla casetta rosa dello scrittore, diventata silenziosamente monumento emotivo, dove è ancora percepibile lo scambio tra la terra e l’uomo, un trasferimento (reciproco?) di genius loci.
Quella vigna non è mai stata di proprietà di Parise, ma era il suo panorama assieme all’argine, al prato che finiva nel mais, al ponte sul ruscello, al grande salice che piangeva da solo, distaccato dalla fila dei carpini, il salice che restituiva con il suo fruscio il vento del Piave.
Parise della vigna non ha mai scritto una riga, ma ci andava ogni giorno con lo sguardo, ci camminava intorno e dentro con gli stivaloni e il fucile in spalla, ci portava a correre il suo cane Petote, stava attento a non calpestare i fiori del prato lasciato rigoglioso tra i filari di viti. Parise con il maglione e la sciarpa, Parise intabarrato d’inverno, Parise sfumato nella nebbia che nascondeva i tralci, infine Parise malato che la raggiungeva con gli occhi dalla finestra della casetta rosa.
Quella vigna non è stata protagonista di pagine o storie, nemmeno di una descrizione, ma faceva parte dell’incantamento e della riflessione, della quiete e del distillare pensieri che lo scrittore aveva trovato in questo angolo di golena.
Se guardiamo con gli occhi di Parise, la vigna non può sparire.
L’allarme sulla sua sorte è corso attraverso sussurri e ciàcole di paese, tra Salgareda e Ponte di Piave qualche mese fa, quando il suo proprietario ha subìto l’assalto dell’età.
Tutti hanno una storia, da queste parti, ma quella di Giacomo Sacilotto è speciale. Adesso ha superato gli ottant’anni ed è in casa di riposo: l’hanno accolto dopo che le sue condizioni di salute sono peggiorate, ma poi s’è ripreso. Tipo strano, Giacomo: da giovane va in Svizzera a lavorare, è un capocantiere stimatissimo. Un giorno capita che un suo compagno di lavoro sia travolto in una buca profonda, lui lo salva, ma nella buca ci rimane lui. Lo tirano fuori, ma non è più lo stesso, un trauma psicologico oltre che fisico.
<Cambià l’omo>, dicono in paese. Dopo un po’ torna in Italia, nella sua Salgareda, compra un pezzo di terra, compera anche la vigna e diventa “gravariòl”. Così si chiama chi vive nelle grave, giusto a ridosso del Piave, tra argine e argine.
Un mondo a parte, fatto di chi sceglie di stare dove la terra diventa acqua perché costa meno, perché si occupa e basta.
Gente povera, che tira su una casa senza chiedere, spesso “pisnenti”, braccianti o uomini che scavano la ghiaia dal greto del fiume. Un po’ ai margini della comunità, così strani da fare i conti con le piene, da coltivare e costruire dove la piena improvvisa ti può portare via tutto. Giacomo è qualcosa di ancora diverso. Carattere chiuso, si fabbrica una casetta minima raccattando mattoni diversi, la contorna di un piccolo brolo la cui recinzione è fatta con i fili spinati recuperati dalle rive del Piave. Recuperavano tutto, dopo il ’18 e per anni e anni, il metallo, i materiali, tutto riciclato nelle abitazioni e nelle campagne. Il filo spinato veniva raddrizzato e formava reti regolari, oggi puoi ancora toccare quel metallo che ha fermato soldati. Giacomo è un po’ “balengo”, gli gira qualche strana idea per la testa, ha paura che gli avvelenino il cibo, vive da solo senza chiedere niente a nessuno, si estrania nella natura, forse è un mezzo poeta che non scrive e dice poco, forse è un inconsapevole un ambientalista ante litteram. Riempie la casa di animali: una mucca, capre, le galline, e li chiama tutti per nome.
La vigna la coltiva a modo suo: niente trattamenti, vien su naturale; niente diserbanti, e il prato allaga di erbe e fiori i filari, e lui cammina lungo le piante per non calpestarli.
La vigna è quasi un simbolo, magari un rifugio per la sua mente provata. Sacilotto è orgoglioso del suo vigneto mezzo selvaggio, che resta così mentre tutt’intorno tutti gli altri cambiano.
Da queste parti, terra vocata, il 90 per cento sono terreni vitati, c’è una strada del vino punteggiata da cantine, qui l’uva è economia. I vigneti di raboso e cabernet sono stati rinnovati, tutti belli regolari per esser lavorati a macchina. Macchine per la vendemmia, ma anche per la potatura: passano, e lasciano gli “speroni” con due gemme, di archettare non si parla più. Ma vigneti così durano poco più di dieci anni.
La vigna di Giacomo ne ha probabilmente più di cento e a questo punto è anche un monumento naturale.
Anche perché è bellissima: è una “bellusèra”, una delle ultime rimaste. Che vuol dire che le piante crescono a quattro a quattro attorno ad un sostegno centrale, è la coltivazione “a raggio”, e poi incontrandosi con l’altro filare formano una pergola bellissima, un sistema che prende il nome dai primi Bellussi, grandi proprietari, che inventarono questa disposizione. E in più, tracce di “piantata veneta”, cioè alberi vivi al posto di pali morti.
A cadenza regolare, il sostegno sono i gelsi (le foglie servivano per i bachi da seta), o il pero, il melo, i susini: frutti, e a ottobre una festa di colori. La vigna prende tre campi trevigiani, un appezzamento un po’ a elle che vuol dire un ettaro e mezzo. Le uve sono cabernet e raboso del Piave, e uva bianca qua e là: se una pianta moriva, Sacilotto piantava qualità diverse.
A fine autunno sembra una gran dama un po’ fanée, con la cipria sbiadita che lascia vedere le rughe, l’abito spiegazzato, ma è movimento e fascino in mezzo alla regolarità geometrica, pali di ferro e cemento, degli altri vigneti.
Giacomo oggi sta bene, ha fatto sapere che <la vigna non si tocca>, qualche traccia lascia intuire che ogni tanto esca dalla casa di riposo e vada a curare il brolo della sua casa. Ma l’allarme, passata l’urgenza, non si è sopito.
<Bisogna riuscire a comperarla> dice Claudio Rorato, assessore alla cultura del Comune di Ponte di Piave. Salgareda, il paese della casetta rosa e della vigna, è un altro comune, ma a Ponte c’è l’ultima casa di Parise (<la mia prima vera casa>, diceva lui), che lo scrittore ha donato alla comunità e che è rimasta così diventando centro culturale: al piano terra tutto com’era, l’arredo semplice, gli stivaloni, il trench e l’Olivetti Lettera 22, i dipinti di Schifano e De Pisis, un triplice profilo di Goffredo di Mario Ceroli, un quadretto di Montale, e di Montale, Hemingway, Tolstoj, Comisso e Gadda anche i libri. Al primo piano la biblioteca del paese, e Francesco il bibliotecario che la fa funzionare a tutto ritmo.
Era speciale, Parise, un carattere magari difficile, ma tra Ponte e Salgareda ha ricevuto e dato molto. Nella casetta rossa ha abitato dal 70 all’82, quando non viaggiava, e fino a quando arterie e reni malandati non l’hanno costretto ad andare a Ponte, fuori dalle alluvioni e più vicino alla dialisi. Quei quattro muri che erano stati il suo rifugio, le stanze linde in cui sono nati “L’eleganza è frigida” o anche la voce “Sesso” dei Sillabari sono stati acquistati vent’anni dopo la morte, nel 2006, dall’imprenditore Enzo Lorenzon e dal suo amico Moreno Vidotto. E’ quest’ultimo che la cura, la apre, organizza manifestazioni assieme a un bel po’ di “parisiani” sparsi nella zona. Tutto gratis, per passione e senza chiedere sovvenzioni.
Il comune di Salgareda è draconiano, nessun favoritismo: si paga tutto, cosa c’entra Parise, in fin dei conti siete dei privati. E’ arrivato, il comune, a chiedere una “maggiorazione curve” per raccogliere le immondizie, 26 euro oltre ai 130 tabellari: eh sì, la strada gira… E nemmeno un euro per i danni subiti nell’ultima alluvione, un metro e venti di acqua in casa, diecimila euro per ripristinare tutto: le case in golena non ne hanno diritto. Ma non in tutti comuni lungo il Piave è così. Anche per questo Lorenzon e Vidotto stanno pensando ad una Fondazione, che avrebbe una personalità giuridica diversa. E pensano di rendere “parisiano” anche quel campo incolto davanti alla casa, dove da due anni non si coltiva più nemmeno il mais, quelle pannocchie che Parise non voleva gli togliessero la vista, e pagava l’affitto per tenere il terreno libero.
Ma la vigna può aspettare i tempi della Fondazione? No, e poi quella terra costa. <L’ideale – dice Vidotto – sarebbe trovare un acquirente viticoltore, con l’impegno a tenerla così>. Mentre si strologa, mentre queste voci raggiungono anche l’avvocato Sonia Bagolin, nominata tutore di Giacomo Sacilotto, il messaggio <salviamo la vigna> circola per linee orizzontali. Arriva per esempio a Padova, titilla le menti fervide di chi anima il progetto “Settima onda”, Aurora Di Mauro in testa, gente che si inventa relazioni inusuali e molto umane tra arte, fotografia, letteratura, cibo. Coinvolge il Museo del Paesaggio di Torre di Mosto, mezz’ora di strada più in là, che su “Parise e gli artisti” sta organizzando una mostra. Tutto dal basso, lontano dai politici, dalla Regione, con un idealismo che deve fare i conti con la concretezza. Che sia una buona idea il crowd funding, che va tanto di moda? Ma chi e come gestirà poi? O non sarà meglio cercare un acquirente illuminato?
Giacomo, in casa di riposo, sa bene che finché è vivo la sua vigna non si tocca. Se la ricorda, così libera e bella come la vedeva Parise.
OGGI
Giornate lente, quelle di Sacilotto nella casa di riposo. Anni lenti. Il tempo non sembra passare mai, e invece è silenziosamente più forte e passa, si sovrappone alle volontà, le diluisce, le cancella. La difesa della vigna è stata sconfitta dal tempo. Lo slancio s’è infilato nel dedalo mentale di un ottuagenario e ci ha messo a trovare l’uscita. Mesi e anni, perché i desideri non si realizzano da soli. Ci vogliono le azioni, gli atti amministrativi, i documenti. La lentezza, del volere e dell’agire, incombe ed è una condanna.
Oggi la vigna di Parise non esiste più.
La cronaca di un salvamento annunciato e sperato è diventata cronaca di una morte lenta, di una agonia più profonda mese dopo mese, un’agonia nascosta dalla vita. I tre campi di “bellussera” lasciati a se stessi nelle indecisioni, nei ritardi, nelle more hanno continuato a vivere secondo le leggi della natura, e chi le ferma?
Quelle viti sono diventate intrico, quasi boscaglia, con qualche pianta diventata cadavere inglobato dalla vegetazione cresciuta da padrona, e così gli alberi liberi da potature ma liberi anche di ammalarsi, e così l’erba altissima e scomposta, non più prato. Un inno alla vita, a suo modo: ma un vigneto non è foresta e di troppa vita si può morire. La vite è pianta dell’uomo, è addomesticata, vuole affetto e cure addirittura quasi quotidiane, come un cane. Non può esistere una vite randagia.
E così quel contratto d’affitto della terra di Sacilotto, arrivato tre anni dopo la prima idea di salvataggio, ha finito per non servire. Eppure l’idea dei soccorritori Rorato, Vidotto e Lorenzon pareva aver preso corpo: trovare un imprenditore del vino, un buon vignaiuolo che adottasse quei filari malconci e preziosi e ne garantisse la sopravvivenza in nome della memoria, del paesaggio, e dell’essere tutta speciale, quella vigna, fantasiosa ed anarchica, ribelle ed economicamente inutile. Mai servita a fare vino, impossibile da riconvertire, ma un unicum per la sua bellezza atipica.
L’uomo giusto è spuntato. Luigino Bonato, agronomo, proprietario di vigneti lì intorno e altrove, ha firmato il contratto d’affitto. È un produttore, ha la cantina Le Rive di Ponte di Piave, ma i patti erano chiari: entrava nella proprietà Sacilotto da padre adottivo, per rimettere le briglie a quella scavezzacollo imbizzarrita, ridarle una vita regolare, farla tornare pezzetto di paradiso terrestre in golena plasmato da mano d’uomo.
<Ci ho pensato per un anno, a come fare. Ma era impossibile, l’abbandono di tre anni è stato devastante. Ho provato, ci ho speso diecimila euro, ma proprio non si poteva>.
Così davanti alla casetta rossa sono arrivate le ruspe, il loro rumore ha rotto il silenzio dell’agonia e la terra della vite, quell’ettaro e mezzo di vigna rigogliosa fino a morire è diventata legno spezzato, orizzontale, estirpato e morto. Non si è nemmeno arrivati a togliere tutte le radici, tanto erano vecchie e profonde. Un funerale frettoloso, senza spettatori.
Sembra aleggiare la nenia della saga triste della via Gluck, dov’era l’erba adesso c’è una città. Non ancora, qui siamo in campagna, e in golena, quel posto che chiamano “il gonfo”, probabile corruzione de “il golfo”, perché il Piave fa una curva e si allarga un po’. Ma dove c’era l’erba, dove cresceva la bellussera adesso c’è una distesa anonima di sabbia e terra. Dove nessun Parise passeggerebbe, dove non c’è e non ci può essere Petote che corra, dove non possono correre nemmeno più pensieri tra i tralci.
Le ruspe non hanno smosso solo terra e radici. Hanno smosso anche gli animi. Arrabbiati tutti con il vignaiuolo Bonato accusato di tradimento, con la delusione a far da detonatore a contrasti, battibecchi, sospetti.
<Ecco, magari adesso piantano prosecco> la previsione più infamante, la materializzazione della sconfitta più lacerante, la sconfessione dei buoni propositi, con cattivissima e impossibile pace tra i protagonisti di questa storia. E Bonato a difendersi, a spiegare, a negare il tradimento, a giurare la propria buona fede. A dire che non è Attila, che una bellussera ce l’ha anche lui proprio su una sua terra attaccata a casa e che non la toglierà mai anche se non ci guadagna un euro. Che lui, Bonato, non è l’imprenditore che insegue solo il profitto. Gli rispondono che magari, è vero, parte della vigna di Parise era morta, ma perché ha tagliato quei gelsi e quel salice? Si scontrano sensibilità, tra persone che si conoscono da anni, amici. Qualche goccia di veleno, incrinature , fiducia che traballa, l’amaro in bocca che non se ne va davanti a quella distesa di sabbia e terra, così vuota e insulsa, così essa stessa denuncia di un fallimento.
Tutto questo, la brutta parola dell’estirpazione, è successo un paio di mesi fa, un sabato d’aprile.
DOMANI – EPILOGO
Forse non tutto è perduto. Meglio: quel che è perduto lo è e non può essere recuperato. Ma ricreato sì. È la promessa di Bonato. Dice che ha un progetto già pronto e che non potranno mai dargli del traditore, che quell’angolo tornerà meglio di prima. Gli altri ascoltano e aspettano. E Luigino Bonato spiega che assieme ad un architetto ha immaginato già tutto e che sta per presentare il progetto al comune di Salgareda, il quale comune non aspetta altro. Dice, l’agronomo viticoltore, che ha già chiesto l’autorizzazione per piantare mille metri quadrati di vigna didattica, anzi ne ha chiesti tremila, chissà se glieli daranno. Si è rivolto alla Scuola Enologica di Conegliano per avere diverse essenze di vite, anche più di quelle che c’erano nella vigna di Sacilotto, per offrire una varietà più vasta da far osservare a studenti e turisti.
«E faremo una bellussera nuova e non malata, e pianteremo ancora filari di gelsi e di venchi, cioè salici». «E davanti alla casetta rossa ci sarà un altro parcheggio, e qui tornerà la gente. Dipende da quando arrivano i permessi, credo che pianteremo l’anno prossimo. Sì, ci sarà anche un vignetino di prosecco, ma poca roba, sul resto metteremo raboso e cabernet, i vitigni tradizionali di questa zona. Dobbiamo tener conto anche delle leggi».
Quelle di Mussolini, per esempio, ancora in vigore e quelle più recenti, tutte tese ad evitare il contagio della filossera. E ci si addentra in una normativa draconiana, per cui gli “ibridi riproduttori” hanno limiti e regole: bisognerà interpretare, convincere, ottenere per poter piantare tipi di vigna potenzialmente a rischio per i i vigneti vicini. Che tra l’altro appartengono a Bonato.
Finora, parole. Ma entro pochi giorni il progetto complessivo dovrebbe approdare in Comune e non avere difficoltà. Poi le procedure per tutta la parte agronomica.
Sarebbe la “renovatio” per la vigna di Parise che non c’è più. Una risistemazione ambientale che conserverebbe, se non le tracce, l’idea di quello che era. Un restyling da dove, ahinoi, viene scacciata l’anarchia poetica del vecchio Sacilotto, e dove abita una razionalità paesaggistica, didattica e produttiva.
I sogni di solito non si avverano, quando succede continuano a rimanere sogni.
Ci sono anche sogni che cambiano con i tempi l’uomo di Neanderthal sognava, ma non poteva sognare automobili, come capita a noi.
La bellussera di fronte alla casetta rossa ci ha messo tre anni a morire e poi sparire.
Quei quattro muri rifugio campestre di Parise hanno continuato a vivere, sono vispi di iniziative e persone, si meritano linfa continua anche dalla natura circostante. Ci vorranno altri tre anni per vedere qualcosa di rifiorito, vigne e non sabbia, gelsi e salici fruscianti. «Li pianteremo grandicelli», assicura Bonato. La vigna di Parise come l’araba fenice. Se tutto succede.
E Sacilotto, nella casa di riposo? Non si sa se sa.
Paolo Coltro
L’autore
Paolo Coltro ha un po’ più di sessant’anni. Ha sempre fatto il giornalista. Una carriera normale in provincia, quasi sempre nel gruppo L’Espresso – Finegil, cioè¨ i giornali locali del Nordest. Ha cominciato come cronista di giudiziaria. Da giovane, per anni, ha fatto il corrispondente di Repubblica da Padova e Veneto. Poi è uscito dal gruppo per fare il direttore del quotidiano Nuova Vicenza. Subito dopo collaboratore di Corriere della Sera e Sette. Rientrato in Finegil, è stato caporedattore della Tribuna di Treviso e poi caporedattore dei tre (poi quattro) quotidiani del gruppo per il settore cultura. Se n’è andato un paio d’anni fa, spontaneamente, perché non sono più¹ tempi per fare cultura in giornali locali. Attualmente collabora con il Corriere del Veneto (Rcs) e ogni tanto con il Corriere della Sera.
Ha scritto alcuni libri: due sulla storia di Padova (con le foto di Uliano Lucas), Tempora e mores. Cronache da un Veneto provvisorio, (Cleup, Padova,) una raccolta di pezzi a tema culturale e di costume; un libro sullo scultore Elio Armano; i testi di volumi fotografici su Cibiana di Cadore e Burano, altre piccolezze. Il suo ultimo lavoro, scritto con N. Perrella, Oltre Gomorra. I rifiuti d’Italia (Napoli, Cento autori, 2017) racconta la storia del peggior stupro del secolo all’ambiente. È anche fotografo: un catalogo, cinque mostre, foto in un paio di (piccoli) musei.