“La Transiberiana. Un’introduzione” di Nicola De Cilia
Nel dicembre del 1929, Giovanni Comisso , su incarico del Corriere della sera, parte per un lungo viaggio in Estremo Oriente: Cina e Giappone e ritorno attraverso Siberia e Russia sovietica. Gli articoli del“Corriere” confluiranno nel libro Cina-Giappone, uscito per l’edizioni Treves nel 1932 (ripubblicato nel 1958 da Longanesi col titolo Donne gentili). Da quel viaggio nasceranno altri volumi, dove Comisso, dà libero sfogo alla sua verve più sensuale e poetica: Amori d’Oriente, (1949, Longanesi) e il capolavoro Gioco d’infanzia, pubblicato solo nel 1959 (in appendice alla riedizione di Amori d’Oriente): due libri “totalmente liberi e contrari al gusto dei lettori [del Corriere della sera]”, commenta Comisso.
Gli articoli dedicati alla Russia non sono mai stati riuniti in alcun volume, ma Comisso li riutilizzerà per la stesura delle Mie stagioni (Edizioni di Treviso – Libreria Canova 1951) nelle pagine dedicate all’anno 1930.
Qui di seguito, pubblichiamo una doppia versione della traversata della Siberia. Il primo articolo compare nel“Corriere della sera” del 5 settembre 1930, il secondo reca la data del 16 luglio 1949, e appare nel “Mondo”, il settimanale di Mario Pannunzio, fondato nel febbraio di quello stesso anno.
Comisso riprende con poche modifiche il testo di quasi vent’anni prima, allontanandolo nel tempo attraverso l’uso del passato remoto al posto del presente;
ma la differenza sostanziale sta in un’introduzione in cui, oltre a contestualizzare il viaggio per i lettori del “Mondo”, ironizza nei confronti dei toni spicciativi con cui il direttore del “Corriere” gli ordinava di attraversare la “Steppa della fame”, senza avere la minima cognizione delle reali condizioni dei trasporti:
per Comisso, insofferente nei confronti di ogni limitazione di libertà e dell’ignoranza che si fa protervia, niente poteva suonare più irritante. Nelle Mie stagioni, l’ironia si farà più caustica e alle notazioni che leggiamo nel “Mondo” aggiunge:
“Ingenuamente mi si dava l’incarico di informarmi sulla sorte di un generale zarista… e ancora, essendosi in quei giorni ucciso il poeta Maiakowsky (sic!), facessi indagini per scoprire se una crisi spirituale stesse travolgendo i bolscevichi… La direzione di quel giornale che passava per il più grande d’Italia faceva semplicemente ridere. Rispecchiava l’intelligenza della solita provincia italiana, limitata tra le chiacchiere del municipio, della parrocchia, della farmacia.”
Lasciamo al lettore, se ne avrà voglia, confrontare le altre varianti tra le due versioni. Ci limitiamo a una sola annotazione: curioso di fronte a usi e costumi differenti; attratto dal popolo e dalla sua bellezza, che si rivela improvvisa, specie nei giovani; indifferente quando non ostile a ogni ideologia e esibizione di potere; il Comisso più coinvolto resta quello che si incanta di fronte allo spettacolo della natura. A un certo punto, nel mezzo della Siberia, il treno ha un guasto e i passeggeri sono costretti a rimanere fermi per alcune ore. Ai due brani qui compresi, aggiungiamo le righe delle Mie stagioni:
“Camminai per quella terra, mi addentrai tra le betulle affondando nell’alta erba fiorita di peonie selvagge; la grande natura mi si presentava libera dagli uomini, accogliente, perfetta.”
Non sarà un caso se, con i soldi guadagnati da quei reportage, Comisso acquisterà una casa nella campagna di Zero Branco, nella convinzione che tutto il mondo possa stare “in un metro quadrato”.
Nicola De Cilia
La transiberiana sotto la bandiera rossa
Mosca, agosto
Si risale verso il Nord. Grandi pianure. Il terreno spoglio di alberi si fa più umido, d’un verde acutissimo. Siamo nell’estrema Manciuria e si corre verso Zizihar[1] su di un treno russo con controllori che portano ancora grandi baffi come al tempo dei Romanoff.
Sono due giorni di viaggio da Harbin[2]fino a Manciuli[3] sulla frontiera siberiana. All’arrivo alle stazioni il treno viene subito fiancheggiato da pattuglie di gendarmi cinesi: ma gran parte di essi non sono tali, bensì Russi bianchi arruolatisi sotto l’insegna dei gialli.
I giovani esploratori mongoli
A Manciuli eccoci effettivamente nel territorio dell’U. R. S. S. Si cambia treno per prendere quello che in sette giorni ci porterà a Mosca. E’ composto in massima parte di vagoni della Compagnia Internazionale dei vagoniletto che l’U. R. S. S. s’è presi per proprio conto, nazionalizzandoli. Una grande fotografia di Lenin domina l’interno della dogana; le guardie rosse e gli agenti, in fondo per nulla petulanti nella visita, fanno il loro servizio freddamente. La curiosità è tanto forte che, come il treno si rimette in moto, si rimarrebbe finché c’é luce inchiodati al finestrino; poi si finisce coll’accorgersi che non vale la pena.
Al mattino ci si trova a Verhneudinsk[4]. Sulla stazione vi è una bandiera rossa in ferro: il sistema è pratico. La stazione, costruita con grossi tronchi di legno, è cinta da grandi betulle. Vi sono dei Mongoli con lunghi pastrani azzurri e una schiera di ragazzi e ragazze, pure mongoli, dal volto rosso e bruno, vivacissimi nello sguardo, vestiti da giovani esploratori con cravatte rosse. E’ la prima volta che vedono un treno. Appaiono campioni bellissimi e inattesi di questa razza. Si sente nel loro sguardo una tensione di verginità, ma profondamente rattrista allorché l’incaricato russo che li accompagna ci spiega che costoro vanno a Mosca per imparare a scrivere a macchina, a telefonare, a guidare l’automobile e per apprendere i principi del comunismo. Provengono da quella parte della Mongolia che occupata da alcuni squadroni di cavalleria rossa, si trova sotto l’influenza dell’U. R. S. S.
Davanti al treno si addensa una folla di Siberiani incuriositi di vedere i ricchi. Gente scalza e barbuta, ragazzi con stivaloni da uomini, donne anziane con corpi massicci e volti estenuati, e giovanotte formose confazzoletti rossi stretti al capo. Guardano incantati come apparizione sublime i nostri vestiti. Da un piccolo spaccio vediamo mani ruvide che riportano grossi pezzi «di salmone rosato». E’ il salmone del Baical, ma così terribilmente salato che nausea.
La Mostra della miseria
Il tramonto rosso e senza fine ci segue, costeggiando questo lago immenso come il nostro Adriatico, e nel mattino s’arriva a Tulun[5]. La stazione è piena di miserabili; sono tutti in mostra su delle gradinate in legno che scendono da un pendio ai lati della stazione: ragazzi scalzi e patiti, con abitini succinti come costumi sportivi, o affondati in vestiti da uomini ; uomini con abiti adoperati non si sa da quanti anni, berrettacci di pelo, «casquette», volti barbuti e tetri, e sempre ragazze civettuole con fazzoletti rossi al capo.
Un gruppo di ragazzi dagli occhi fortissimi, biondi e consunti, sta fermo tra le rotaie. Una signora scende dal treno portando una bottiglia vuota di cui non sa che farsene, s’avvicina ai ragazzi e l’offre a loro. Questi rimangono con le mani in tasca e, torvi, rifiutano d’accettare; allora la signora depone la bottiglia per terra nel mezzo del binario e se ne va. I ragazzi fissano lo sguardo sulla bottiglia: pare siano dominati dal calcolo del suo valore; nessuno osa impossessarsene; infine uno munito di stivaloni accenna ad infrangerla con una pedata contro la rotala, ma il suo gesto, che sembra quasi provenga dagli anni della distruzione, quando egli era appena nato, viene fermato da un giovanotto che gli passa vicino, con fiori di campo all’orecchio. Questi prende la bottiglia e la attribuisce ad un altro ragazzo timido e macilento che se ne sta in disparte con una bottiglia piena di latte che non riesce a vendere.
Il viaggio finisce col riescire meno lungo di quanto si supponeva. Il treno fila veloce e puntuale. Le stazioni si succedono sempre più nere di gente lacera e amara. A volte non si trova alcuno che venga a vendere uova o latte; altre volte invece, negli spacci pubblici sotto lunghe tettoie di legno, vi è grande numero di contadine dalle teste maschie ma dalla voce artificiosamente gentile, che tengono in mostra i catini colmi di carnami arrosti, grossi pezzi di oche, ceste d’uova, secchie di latte, torte e marzapani. Ma tutta questa abbondanza ha il segreto prestigio di nauseare. Pare che la gente sia vestita con abiti tolti ai morti. A volte si vedono delle ragazze dalle gambe nude robustissime, poi ragazzi scheletriti e certi vecchi dal volto fine, come appartenenti un tempo ad una casta rispettabile, ridotti a vendere giornali.
Si entra nelle sale d’aspetto e nel« buffets » (vi sono « buffets » e sale di aspetto di prima, seconda e terza classe), ma l’aria è ugualmente soffocante d’un acre odore di grasso e la folla è ugualmente miseranda. Si vedono sulle tavole ricchi candelabri argentati o dorali o anfore di stile classico, tolti ai palazzi, e accanto facce barbute in « casquettes », curve su piatti di nere patate.
Il verde splende sui prati chiusi dal bianco dei tronchi delle betulle. Quale incanto questi alberi dalle chiome tremule e fluenti. La Siberia appare meno tetra di quanto ci risultava dalle famose letture. Non boscaglie opprimenti. Il bosco è sempre interrotto da pianure floridee le grandi distese da larghi fiumi esaltativi.
In piena Siberia e in aperta campagna il treno si ferma per un guasto alla macchina. Si scende, si passa la scarpata della ferrovia e si va a camminare tra l’alta erba piena di orchidee e di peonie selvagge; si arriva sino al bosco, si gode l’ombra delle betulle, si calca questa terra con forza come per interrogarla nel suo segreto di violenza e di dolcezza, di stupidità e di intelligenza. Il silenzio e l’alta bellezza degli alberi mai fermi nelle foglie invogliano a rimanere qui per sempre. Un cavallo e un fucile, si pensa e qui si potrebbe vivere felici.
Il fischio ci richiama all’Europa. E le stazioni si susseguono: Nijncudinsk[6], Krasnojarsk[7], Atchinsk[8], Yurga[9]. Nelle sale d’aspetto vi sono delle famiglie ammucchiato per terra tra sacelli di roba, gente che attende da giorni un treno per partire. Tra la folla miserabile, dopo tre giorni, si vide il primo essere vestito a nuovo: era un giovanotto con pantaloni di velluto e stivali e una camicetta crema, lucente come di seta, ricamata agii orli di fiorellini rossi. Camminava timido, quasi vergognoso! Tutti noi ci si domandava incuriositi come mai fosse vestito così bene.
La « pagoda » di Cristo
Ad ogni stazione c’è qualche membro del partito che monta sul nostro treno per andare a Mosca al grande Congresso politico. Portano la camicia nera, teste rapate o dalle chiome fluenti; alcuni hanno l’aspetto di ingenui, di entusiasti e passionali, altri di impulsivi e crudeli. Ce n’è uno forte, bruno in volto, tutto raso ai capelli, con occhi inquieti e spavaldi, che ci fissa un po’ tutti con un immenso disprezzo. Uno venne appunto ad occupare l’altro posto del mio scompartimento, biondo e arso nel volto, pare quasi umile: cerca di dare meno disturbo che può; parla poco francese e poco tedesco;io aggiungo qualche parola di sloveno, ma si tira avanti a comprenderci ugualmente. Quando sente che sono italiano, ride con sarcasmo: «Ah, voi avete a Roma il Papa, con la pagoda di Cristo». Quando si tocca il tasto della politica, finge di non comprendere. E’ stato cinque anni incarcerato dai Polacchi. Legge un libro di Leonoff: si parla della nuova letteratura russa, che conosce appieno e con ottimo gusto. Ad ogni stazione scende per comperare parecchi giornali. Gli si dice che legge troppo, che con lutti quei giornali nelle tasche ha l’aspetto d’un politicante borghese.
Arrossisce e si giustifica dicendo che il momento politico è importantissimo: si tratta dell’industrializzazione dell’ U. R. S. S. Passiamo vicino a una città che innalza cupole di chiese su da boschi di abeti. Indichiamo al nostro compagno di viaggio le croci ortodosse dove dei passeri stanno appollaiati. « Niente distrutte quelle? » Stavolta non è più sarcastico: ancora arrossisce perché sorridiamo nel dire questo; e s’accenna con lo sguardo alla sua magra cena che sta consumando: due sardine con un pezzo di pane nero e timido, come noi mai abbiamo visto durante la guerra. Alla mattina ci si scambia il buon giorno e, come egli esce dalla «toilette », gli si offre un gocciolo di acqua di Colonia. L’accetta subito; ma col suo fazzoletto imbevuto di profumo, gli occhi chiari si fissano: ed egli rimane sbalordito come da un narcotico
Pane bianco e pane nero
Si va ogni tanto nel vagone ristorante, ma l’odore di grasso toglie il respiro. E’ pieno di Russi; essi sanno adattarsi a tale fetore. Vi sono delle guardie rosse piuttosto scalcinate ad una tavola con delle ragazze: bevono il tè e si guardano negli occhi; poi un uomo gigantesco e anziano con barba ricciuta e rossigna, a cui due donnette si confidano freneticamente con lunghe chiacchierate. Ad altra tavola, i ragazzi mongoli, giulivi di viaggiare in treno: le facce si sono annerite di fuliggine e il rosso vivo delle guance se ne sta celato. Una delle ragazze è particolarmente bella e formosa, coi capelli tagliati alla bebé, scarpino dal tacco alto e vestito europeo. Ma in un angolo vi e una famiglia russa: marito, moglie o figlioletto. Lui è un ingegnere; in altri tempi sarebbero stati dei borghesi. Biondo, aspro, tenace, piccola barba rinforzata dal mento; lei nagretta, muta; vestiti modestamente; giovani ancora. Il figlioletto di dodici anni, delicatissimo e bello, con un misero abitino alla marinara, sporco e strappato.
Tutti dimostrano uno sforzo acuto di resistere. Il cameriere ha messo loro davanti il pane nero e una zuppa di verze. Adoperano con eleganza il cucchiaio, mandano giù il pane acido e soffocante con una disinvoltura quasi superba. Quando il treno si forma a qualche stazione, tutti e tre si prendono a braccio, il figlioletto in mezzo, e camminano a passi lenti, melodici, indifferenti nell’incontrarsi coi passeggeri stranieri allegri e ben vestiti, Lei è senza calze con soli sandali, lui ha una povera camicia. Ma in uno dei vagoni di terza classe vi è una donna giovane ed esile con un ragazzetto. Questa donna in altro paese sarebbe assolutamente una signora, tanta finezza e delicatezza traspaiono dal suo volto; è salita a Tulun, portando essa stessa con le sue deboli mani delle grandi ceste. E’ senza calze, con delle scarpette di gomma, un vestitino di velluto lilla consunto, senza cappello. Il figliolo tredicenne, con un berrettino da marinaio sporco e sfilettato nei nastri che gli pendono sul collo, ha due occhi azzurri dilatati, sensibilissimi. Ora questo ragazzo, ad un’età in cui gli altri se piangono lo fatino perché il babbo comperi loro la bicicletta o altro, l’ho visto ad una stazione battere i piedi per terra e piangere perché voleva che sua madre gli comperasse del pane bianco che alcune contadine vendevano.
Ad ogni stazione, già dal Baical oramai lontano, vi sono sciami silenziosi di bambinette, con uno scialletto in testa, scalze e patite, che vengono ad offrire i fiori selvaggi della Siberia. Volti dolci, timidi voci, con splendidi occhi, alcune hanno i capelli tagliati corti a colpi disordinati di forbici, e le carni sono cosi bianche che non potranno mai incallire.
Il quarto giorno arriviamo a Nowo-Sibirsk[10], nel centro della Siberia. Tre o quattro treni sono fermi e una folla di contadini con sacelli e ceste li prendono d’assalto. Poco prima d’arrivare alla stazione abbiamo incrociato con un treno con tutti i vagoni chiusi da inferriate, pieno di contadini che venivano deportali, le sale d’aspetto sembrano tremendi ricoveri di mendicità. Dappertutto vi è gente sdraiata per terra, e sempre uomini e donne o esageratamente calzati di stivaloni o scalzi.
« Papiros ! Papiros ! »
Tutti ci guardano con stupore. E al vederci fumare, sulle loro labbra smuore timida l’invocazione: Papiros! Papiros! (Sigarette! Sigarette!). Sembra che nella generale penuria desiderino più queste del pane. Nel « buffet » vi è un magnifico servizio in argento per conservare calde le vivande, ma dentro non vi sono che patate. Due donne che s’incontrano si baciano e si mettono a piangere. Dalle porte passano colonne di gente con bambini e fagotti: pare che tutta la popolazione della città si prepari ad un esodo. Come il treno si muove, si può vedere questa città di case di legno allineate su grandi strade rettilinee piene d’erba. Poi essa appare distesa sul ciglio del lungo declivio che costeggia il vasto Ob[11] rosso al tramonto. Le cupole dorate delle chiese si elevano in riva a questo ampio fiume lento nel corso. Il treno rientra nella notte e nelle foreste.
Al mattino s’arriva ad Omsk[12]. Vi è una grande folla seduta sullo spiazzo, con tabarri e berrettacci di pelo. Ad un certo momento si sente vibrare la dolcezza d’un canto: è un ragazzetto biondo che si è staccato dalla massa, tiene il berretto tra le mani un’altezza del petto, sta rigido in posizione quasi d’attenti. La canzone è dal ritmo marziale. Gli si gonfia la vena del collo nello sforzo incessante e tiene le palpebre abbassate sugli occhicome per non confondersi. A poco a poco egli attrae in cerchio attorno a sé tuttala folla. Il canto trlla e domina e commuove, tanto appare sovrumano. Tutti ascoltano ed egli non arriva mai alla fine. Di tanto in tanto qualcuno di questi miseri gli si avvicina per deporgli nel berretto qualche copeco.
Attraversiamo zone paludose: grosso mosche inseguono il treno ed entrano pei finestrini; su d’un binario v’è un treno incendiato, e la macchina è rotolata giù dalla scarpata, il controllore della nostra vettura si diverte a prendere le mosche, ma non le uccide, le rimette in libertà. Si sorride; egli vuole che gli si insegni l’italiano.
Le foreste si fanno più cupe, ci s’avvicina agli Urali; alla stazione di Tiumen[13] vi è tutta schiera di ragazzi che si sono ingegnati a fare i lustrascarpe ad uso dei ricchi che passano con la Transiberiana, e in pochi minuti fanno discreti affari. Non si vedono alte montagne: un temporale si addensa e scaraventafulmini in tutte le direzioni. La Siberia è finita. Le città si fanno d’apparenza più europea, con case in muratura. Jaroslav[14], sul Volga, è qualcosa di imponente: distesa su pendii lungo il largo fiume, tutta verde di piccoli boschi, da cui sorge il bianco di monasteri o l’oro delle cupole delle innumerevoli chiese. Sui prati si vedono branchi di bestiame o di bianche oche, ma sui campi nessun contadino al lavoro. In un altro giorno s’arriva Mosca e avvicinandoci, incontriamo dei treni a trazione elettrica, il comunista del mio scompartimento me li indica come cosa prodigiosa. E gli si dice: « In Italia abbiamo il Papa, la pagodadi Cristo, e anche di queste cose, ma da molti anni… »
E lo si vede nuovamente «arrossire».
Giovanni Comisso
Pubblicato sul Corriere della Sera il 5 settembre 1930
[1]Zizihar dovrebbe essere l’attuale Zabaikalsk, cità russa nel territorio della Transbajkalia, sulla frontiera della russo-cinese.
[2]Harbin è il capoluogo dell’Heilongjiang, la provincia più a nord della Cina. La città si è sviluppata nel tardo XIX secolo grazie alla presenza di ingegneri russi giunti ad Harbin per costruire la tratta orientale della ferrovia Transiberiana
[3] Manciuli si chiama attualmente Manzhouli, nota in passato come Lupin, è una città della Regione Autonoma della Mongolia Interna, in Cina.
[4]Verhneudinsk si chiama attualmente Ulan-Udė si trova in Buriazia, regione russa a nord della Mongolia, La città si trova a pochi chilometri dal Lago Bajkal.
[5]Tulun è una cittadina della Siberia sudorientale, situata 390 km a nordovest del capoluogo Irkutsk nella valle del fiume Ija; è il capoluogo amministrativo del distretto omonimo.
[6]Nijncudinsk, o Nižneudinsk, è una città della Siberia sudorientale, situata nel pedemonte settentrionale dei monti Sajany, sulle sponde del fiume Čuna, 506 km a nordovest del capoluogo Irkutsk;
[7]Krasnojarsk è una città della Russia siberiana centrale, capoluogo del Kraj omonimo. Sorge sulle rive del fiume Enisej, a metà del suo corso. È la terza più grande città siberiana, importante centro industriale e nodo di comunicazione ferroviario e aereo.Durante l’epoca dello Stalinismo, Krasnojarsk divenne sede di Gulag.
[8]Atchinsk, o Ačinsk, è una città della Russia, situata nel Kraj di Krasnojarsk sul fiume Čulym. La città è servita di un aeroporto.
[9] Yurga, o Jurga, è una città della Russia siberiana meridionale. È il capoluogo del rajon Jurginskij. Sorge sul fiume Tom, 143 chilometri a nordovest del capoluogo Kemerovo.
[10]Novo-Sibirsk, ora Novosibirsk, è la città capoluogo della regione di Novosibirsk nella Federazione Russa e del Distretto Federale Siberiano. È un importante nodo per i trasporti, vi passa la ferrovia Transiberiana e dispone di due aeroporti. La città è attraversata dal fiume Ob’.
[11]L’Ob’ è un fiume della Siberia occidentale (Russia). Nasce sui monti Altai e, dopo aver attraversato il bassopiano siberiano occidentale, sfocia nel Mare di Kara, che è parte del Mare Glaciale Artico.
[12]Omsk è una città della Russia situata nella parte sud-occidentale della Siberia e capoluogo della regione omonima. È la seconda città siberiana per grandezza dopo Novosibirsk e la settima in Russia. La città è una stazione importante lungo la Transiberiana. W
[13] Tiumen, ora Tjumen’, è una città della Russia siberiana occidentale.
Transiberiana
Nel 1930, quando mi trovavo a Pechino per incarico di un giornale, il direttore mi mandò questo telegramma: «Rientrate in Italia, prendete transiberiana scendete a Novisibirsk prendete ramo per SergiopalatinskTaschent Samarcanda Krasnovodsk attendeteBacùdisposizioni descrivete paesi attraversati». Mi sembrava, specie per l’uso del voi e per il tono spicciativo del comando di movimento, di essere ritornato ufficiale in tempo di guerra. Fuori dal mio albergo spirava violentissimo il «vento giallo», denso di sabbia dei deserti da cui proveniva. Andai subito per consigliarmi da un generale russo, capo dei russi “bianchi”, sfuggiti in Oriente, che avevo conosciuto e che sapevo era stato governatore delle regioni che avrei dovuto attraversare. Quando lesse il telegramma sorrise e mi spiegò che la linea ferroviaria del Turchestan funzionava raramente perché costruita con materiale scadente e se non si interrompeva per questo, erano i predoni della Steppa della Fame che se ne incaricavano. Durante l’estate il caldo era fortissimo a Samarcanda ed egli sebbene abitasse un palazzo, dai muri grossissimi, per resistervi doveva fare mettere nella sua stanza grandi bacili d’acqua che veniva di continuo rinnovata. Mi sconsigliava di fare quel viaggio che riteneva riservarmi la sorpresa di restare bloccato in luoghi deserti attraverso i quali egli andava solo accompagnato da numerosa scorta di cosacchi. Il direttore nel fare quel telegramma doveva sicuramente avere consultato un piccolo atlante tascabile dove tutto il mondo sembrasse a portata di mano. Risposi che quel percorso era inattuabile, invece sarei rientrato per Mosca.
Pochi giorni dopo mi giunsero i denari per il viaggio, in sterline, e andato a una banca me ne diedero duecento tutte d’oro in due sacchettini. Erano davvero attraenti, ma siccome molti cinesi mi stavano attorno avidissimi nel breve sguardo, ebbi il sospetto che fuori dalla banca me li portassero via, anche perchè avrei dovuto tenerli in mano, vestito di seta leggera com’ero. Pregai il cassiere di darmi sterline in carta, egli ne fu contrariato, perchè la sterlina in carta valeva allora più della sterlina d’oro, appunto perl’impraticità del trasporto. Dalla banca passai all’agenzia di viaggi e presi il biglietto ferroviario da Pechino a Venezia attraverso la Siberia, e costava allora seimila lire.
Era un biglietto eccezionale, scritto in cinese, in russo, in inglese, in francese, in polacco, in cecoslovacco. in tedesco, quasi un piccolo libro. Partii ai primi di giugno dando un addio alle grandi mura di Pechino e alla sua folla tumultuosa tra la polvere, mentre il treno si muoveva. Risalii verso il settentrione attraversando la campagna cinese sparsa di tombe e di alberi fluenti nelle frondi. Poi rasentai il mare melmoso dove la grande muraglia scendeva a chiudere l’estrema difesa contro le invasioni. Quando si giunse in Manciuria, ad Harbin, si passò dal treno cinese nell’altro che non avrei più lasciato fino all’arrivo in Europa, dopo otto giorni di viaggio. La Manciuria era verdeggiante in smisurati pianori attraverso i quali serpeggiava lento l’Amur e minute torme di cavalli liberi galoppavano all’orizzonte.
All’entrata in Russia il treno venne bloccato da soldati con la baionetta inastata, ma alla dogana dominata da un grande ritratto di Lenin non furono per nullapiù noiosi delle solite dogane inglesi. Fino allora avevo potuto mangiare benissimo nella vettura ristorante cinese, ma ero stato avvertito che dopo avrei dovuto fare assegnamento solo sui viveri di scorta. Difatti, fatta una prova nella vettura ristorante russa, non potei avere che una zuppa untuosa, pane nero e umido per ricadere nell’inevitabile vodca e caviale. Accordatomi col cuoco al quale, data una mancia, promisi metà della mia porzione, potei per tutti i giorni del viaggio cuocere della pasta o del riso che avevo portato con me e che condivo con burro in scatola. Avevo ancora altre provviste e tanto per ricordarmi che ero in territorio russo chiudevo sempre i miei pasti con caviale o vodca.
Ad una stazione mi accorsi che sul tetto vi era una bandiera rossa di ferro, era un sistema pratico per renderla resistente ai venti della Mongolia, ma non era più una bandiera. Salirono alcuni mongoli con lunghi pastrani azzurri e una schiera di ragazzi e ragazze di quella regione, dal volto largo, rosso e bruno, vivacissimi nello sguardo, vestiti da esploratori con cravatte rosse. Era la prima volta che salivano in un treno. Bellissimi e inattesi campioni di questa razza, ma mi rattristai quando l’incaricato russo che liaccompagnava mi spiegò che andavano a Mosca per apprendere i principi del comunismo, per imparare a scrivere a macchina, a telefonare, a guidare l’automobile. Era con loro una giovanottona, pure mongola, ma vestita all’europea con scarpe dal tacco alto e scollata alla blusetta che le faceva risaltare le gonfie mammelle. Molto in confidenza coll’incaricato russo, questi doveva già averle fatto apprendere molti princìpi del comunismo. Ad un’altra stazione costruita di grossi tronchi d’albero e cinta di morbide betulle una folla di siberiani venne ad addensarsi incuriosita davanti ai ricchi che viaggiavano con me.
Gente scalza, barbuta, ragazzi con stivaloni da uomo, donne anziane con corpi massicci e volti estenuati e giovanette formose con fazzoletto rosso stretto al capo. Guardavano incantati come una sublime apparizione i nostri vestiti. Da un baracchino mani ruvide riportavano grossi pezzi di roseo salmone. Era il salmone del Baical e credendolo delizioso ne comperai un pezzo, ma terribilmente salato nauseava.
Il tramonto rosso senza fine sopraggiunse che già si costeggiava da parecchio il Baical immenso come un mare.All’alba si arrivò a Tulun, la stazione era piena di miserabili, i tutti in mostra sui gradini di legno: ragazzi scalzi e patiti, con abitini succinti come costumi sportivi o affondati in vestiti da uomo, uomini con abiti usati non si sa da quanti anni, berrettacci di pelo, volti barbuti e tetri e sempre ragazze ambiziose con fazzoletto rosso al capo.Un gruppo di ragazzi biondi e consunti, con occhi fortissimi come pietre preziose, venne vicino al treno, e una signora cinese, che viaggiava con me, scese per offrire loro Una bottiglia vuota di cui non sapeva che farsene. Rimasero con le mani in tasca, torvi, rifiutando l’offerta, allora la signora depose la bottiglia tra le rotaie e i ragazzi la fissarono immobili come per calcolare il suo valore, senza che alcuno osasse impossessarsene. Infine uno accennò a una pedata per infrangerla, ma il suo gesto che sembrava quasi provenisse dagli anni della distruzione, venne fermato da un giovanotto che passava, con fiori di campo all’orecchio, prese la bottiglia e l’attribuì a un ragazzo timido in disparte con una bottiglia di latte che non riesciva a vendere. Questo gesto delgiovanotto sembrava provenisse invece dal tempo dei piani quinquennali. Le stazioni si succedevano sempre più nere di gente lacera e amara, incuriosita e trattenuta dalle guardie armate come se noi portassimo qualche morbo contagioso, ma al momento in cui il treno ripartiva sempre qualche ragazzo riesciva a sfuggire per correrci dietro e afferrare qualcosa che gli si donava.
A volte, sotto lunghe tettoie di legno, numerose contadine dalle teste maschie, ma dalla voce artificiosamente gentile offrivano in vendita catini colmi, di carnami arrostiti, di grossi pezzi di oca, ceste d’uova, secchie di latte, torte e marzapani. Tutta questa improvvisa abbondanza aveva il segreto prestigio di nauseare. Altre volte invece alle stazioni non si trovava un venditore di latte.
A Novosibirsk, dove secondo il telegramma del direttore avrei dovuto scendere per prendere il treno per il Turchestan, la folla si addensava miseranda. Gli uomini sembravano indossare vestiti tolti ai morti, ragazzi esili, donne che erano come rigonfie di stracci, qualche vecchio dai lineamenti gentili, come appartenente un tempo a una casta rispettabile, ridotto a vendere giornali e sempre ragazze dalle gambe nude, robustissime, come sole conservatrici della potenza della razza. Entrai nelle sale d’aspetto piene di gente pronta come ad emigrare, assisa tra cumuli di sacelli e di ceste, entrai nel ristorante suddiviso per la prima, seconda e terza classe, ma dovunque vi stagnava un’aria soffocante di grasso. Sulle tavole candelabri di argento e anfore, tolti ai palazzi dei ricchi e accanto facce barbute in berretto curve su piatti dinere patate. Un grandissimo scaldavivande in argento con teste d’ariete sui coperchi conservava nei recipienti una poltiglia nerastra ripugnante. Un treno partiva verso il Turchestan con tutti i finestrini chiusi da inferriate e dentro si intravedeva gente allibita, forse deportata. Il verde splendeva sui prati chiusi dal bianco dei tronchi delle betulle dalle chiome fluenti e tremule. I boschi di abete erano, interrotti da pianure fiorite e le grandi distese, da larghi fiumi.
In piena Siberia il treno si fermò per un guasto alla macchina. Scesi, passai la scarpata ed entrai a camminare tra l’alta erba dove si schiudevano rosee peonie selvagge e grandi orchidee. Arrivai fino al bosco godendo dell’ombra delle betulle, calcavo con forza la terra come per interrogarla nel suo segreto di violenza e di dolcezza, di stupidità e di intelligenza. Il silenzio e l’alta bellezza degli alberi mai fermi nelle foglie ivogliavano a restare per sempre, ma il fischio del treno richiamava all’Europa. Dopo quattro giorni di viaggio vidi filialmente il primo essere vestito a nuovo tra la solita folla miserabile: un giovanotto con calzoni di velluto e stivali lucenti, e una camicetta gialla come di seta ricamata sugli orli a fiorellini rossi. Camminava timido, sfuggente, vergognoso quasi. Tutti ci si domandavi incuriositi come mai fosse vestito così bene. Ad ogni stazione saliva qualche membro del partito perchè a Mosca vi era un grande congresso politico. Indossavano la camicia nera, teste quasi sempre rapate, alcuni sembravano ingenui, altri entusiasti e passionali, altri impulsivi e crudeli. Uno, forte, bruno, tutto rasato, inquieto e spavaldo ci fissò un po’ tutti con disprezzo. Un altro, biondo, arso in volto, quasi umile, venne ad accomodarsi nel mio scompartimento. Cercò di dare il meno disturbo possibile. Parlava poco il francese, poco il tedesco, io aggiunsi qualche parola di sloveno, ma potemmo comprenderci ugualmente. Appena intese che ero italiano, rise con sarcasmo : «Ah, voi avete a Roma il Papa con la pagoda di Cristo ». Ad ogni stazione scendeva per comperare i giornali. Gli chiesi perchè ne leggesse tanti. Rispose che il momento politico era importante: si trattava dell’industrializzazione delI’U.R.S.S. Nel passare vicino a una città che innalzava cupole di chiese da boschi di abeti, gli indicai le croci ortodosse dove i passeri sta vano appollaiati : «Niente distrutte quelle? » gli si chiese. Ma finse di non capire rivolgendosi alla sua magra cena fatta di aringhe e del solito pane nero e umido. Alla mattina ci si scambiava il buon giorno e una volta appena finito di lavarsi gli offersi un po’ di acqua di Colonia, ma diffidò stupito, poi fini coll’accettare, gli occhi chiari si fissarono e rimase sbalordito come fosse stato un narcotico.
I ragazzi mongoli che andavano a Mosca, erano oramai irriconoscibili, per la gioia di viaggiare in treno stavano sempre con la testa fuori dal finestrino e il voltò fresco si era annerito di fuliggine. In uno scompartimento vi era una famiglia russa : marito, moglie e un ragazzetto. Egli, un ingegnere biondo, aspro, tenace, con piccola barba rinforzata dal mento; ella, magretta, muta, vestiti mediamente, giovani ancora. Il ragazzetto, era delicatissimo, con unmisero abitino alla marinara, sporco e strappato. Dimostravano uno sforzo continuo a resistere. Il cameriere, quando andarono nella vettura ristorante, mise loro davanti il pane nero e una zuppa di verze. Adoperavano con eleganza il cucchiaio, e mandavano giù quel pane con una disinvoltura quasi, superba. Quando il treno sifermava a qualche stazione tutti e tre si prendevano a braccio, il ragazzetto in mezzo e camminavano a passi lenti, indifferenti nell’incrociare coi passeggeri stranieri dei treno allegri e ben vestiti.
In una vettura di terza classe vi era una giovane donna estenuata, assieme a un ragazzino, erano saliti a Tulun aiutandosi a trascinare due grandi ceste. Il ragazzino aveva un berretto da marinaio, sfilettato nei nastri che gli pendevano sul collo, i suoi occhi azzurri erano dilatati, sensibilissimi. Ad una fermata lo vidi battere i piedi per terrà e piangere perchè voleva che sua madre gli comperasse un pane bianco che alcune contadine vendevano;
Ad ogni stazione, già dal Baical, oramai lontano, piccoli gruppi di bambinette venivano ad offrire i fiori selvaggi della Siberia. Volti dolci, timide voci, splendidi occhi, alcune avevano i capelli tagliati a colpi disordinati di forbici e la pelle era così meravigliosamente bianca che sembrava non potesse mai avvizzire. Le sale d’aspetto sembravano sempre tristi ricoveri di mendicità, uomini e donne sdraiati per terra o esageratamente calzati di stivaloni o scalzi. Tutti ci guardavano con stupore è al vederci fumare, sulle loro labbra smoriva l’ivocazione: Papiros, papiros. Le città erano fatte di case di legno allineate su larghe strade rettilinee verdeggianti d’erba. Attraversammo i grandi fiumi e cupole dorate di conventi splendevano sulle alte rive tra gli abeti. Il treno rientrava sempre contemporaneamente nella notte e nelle foreste. L’Asia era per finire, ci si avvicinava agli Urali.
Una mattina, ad una stazione, sullo spiazzo stava ferma una grande folla con tabarri e berrettacci di pelo e una voce vibrava nella dolcezza di un canto: un ragazzetto biondo, rapato nella testa tonda, col berretto tra le mani all’altezza del petto, rigido in posizione quasi d’attenti cantava marziale. Gli si gonfiava la vena del collo nello sforzo e teneva le palpebre abbassate sugli occhi come per non confondersi. Tutta la
folla stava attratta a quel canto che trillava, dominava e commoveva, tanto appariva sovrumano. Tutti ascoltavano e non arrivava mai alla fine. Ogni tanto qualcuno di quei miseri gli si avvicinava per deporgli un copeco nel berretto. Anche il ragazzino che piangeva per avere il pane bianco venne ad offrirgli la sua piccola moneta e lo guardò incantato.
Attraversammo terre paludose, grosse mosche entravano dai finestrini e il controllore si divertiva a prenderle, ma non le uccideva, le rimetteva in libertà. L’Europa era prossima, ma non si vedevano alte montagne a dividerla dall’Asia. Un temporale si addensava sopra le immense paludi e scaraventava fulmini in tutte le direzioni. Come dovessimo entrare in una casa, all’ultima stazione della Siberia alcuni ragazzi si erano ingegnati a fare i lustrascarpe per i ricchi che passavano col treno. Il mattino seguente eravamo in Europa e lungo gli alti pendii del Volga biancheggiavano monasteri e chiese con cupole dorate tra il verde dei boschi. Sui prati pascolava il bestiame o bianche oche. Avvicinandoci a Mosca incrociammo alcuni treni elettrici e il mio compagno di viaggio smettendo la lettura degli ultimi giornali che aveva comperato, me li indicò come una creazione prodigiosa: sorridendo gli dissi che ne avevo visti ancora.
Giovanni Comisso
Pubblicato su Il Mondo il 16 luglio 1949