Ho ritrovato Mario, il timoniere di un veliero che conoscevo da tempo. Riconobbi subito la sua voce mentre parlava con una donna, nell’andare in vaporetto verso la sua città. Mi offerse delle sigarette inglesi. “Come mai?” gli dissi. Ritornava da una grande avventura.
Un giorno, un suo amico incontrato a Venezia gli disse che il momento buono era arrivato; si trattava di raggiungere la fortuna per sempre e non dannarsi più. Centocinquantamila lire al mese, quarantamila di anticipo; un ebreo ingaggiava uomini per portare due imbarcazioni in Palestina; mancava un bravo timoniere. Se accettava salpavano all’alba. Accettò subito, corse a casa per salutare la moglie, la madre e il fratello, e arrivò prima dell’alba al punto della partenza. Alla moglie che piangeva, alla madre pure distolse le lacrime ripetendo: “Avete sempre patito fino adesso, ma da qui a dieci mesi saremo milionari. Basta, col giocare al lotto, ecco il terno secco”. E poi sarebbero andati tutti in Palestina. Il fratello che vendeva frittelle ai pescatori, le avrebbe vendute agli ebrei; la moglie e la madre avrebbero aperto una trattoria. “La terra promessa” ripeteva, mentre accennavano a sorridere nella lusinga.
Alla partenza intascò le quarantamila lire di anticipo e subito chiese quali erano le imbarcazioni ma con sorpresa vide un pontone da sbarco tedesco e una piccola corvetta che doveva essere portata a rimorchio. Attraversare l’Adriatico e mezzo Mediterraneo con quel pontone che era come una zattera e, se avesse preso il mare grosso di prua, avrebbe dondolato come un’altalena, capì che era una pazzia, ma quelle quarantamila lire già in tasca e le centocinquantamila mensili, lo convinsero che tutto era possibile e che tutto sarebbe andato bene.
Nella sua esperienza di trent’anni di navigazione sapeva che in mare, se v’è destino di lasciarvi la vita, la si lascia: ma ad ogni modo, sapendo fare, tutte le difficoltà si possono vincere, e il mare non gli faceva mai grande paura, aveva le sue leggi, invece erano gli uomini che gli facevano sempre paura, perché non avevano leggi e non si sapeva mai quello che avrebbero fatto. Ma ora si trattava di ebrei pieni di denaro, e che facevano una guerra per conquistarsi la patria, dove vivere anch’essi come vivono gli altri popoli, ed era sicuro.
Partirono: il capitano e gli altri marinai erano tutti italiani più giovani assai di lui, e il capitano, uno che s’era preso il titolo da poco e non aveva ancora comandato neanche un rimorchiatore. Egli invece, fatta la sua giovinezza coi velieri da carico tra le due sponde dell’Adriatico, aveva poi coi bastimenti battuto l’atlantico e il pacifico ed era stato anche in terra di Palestina.
Arrivati con mare buono all’altezza delle puglie, puntarono verso la costa dove, in un luogo convenuto, imbarcarono due Ebrei, che presero il comando mettendosi subito una grossa pistola alla cintola. Ma erano due giovanotti e anche loro di mare se ne intendevano poco. A bordo vi era da mangiare, da bere e da fumare in abbondanza, gli sembrava di essere non un marinaio, ma un passeggero di prima classe e di navigare non su quella zattera, ma su di un piroscafo di lusso. Tuttavia sapeva che il punto duro sarebbe stato tra capo Matapan e Creta. Il punto delle tempeste. E la tempesta venne con pesante mare di scirocco.

Nella notte il pontone sbatteva sulle onde come un maglio potente, tutti erano sgomenti: Italiani ed Ebrei. Egli si era inchiodato alla sbarra del timone e giocava a prendere il mare di fianco per evitare che il pontone si spezzasse. Non doveva né spezzarsi, né capovolgersi. Egli doveva raggiungere la terra promessa, e diventare milionario. Tutti lo infastidivano con i loro lagni, e i due Ebrei temevano puntasse verso terra per salvarsi, dove invece sarebbero stati arrestati e messi in un campo di concentramento. Li mandò tutti a dormire nella stiva, felice di essere solo a lottare col mare.
All’alba credeva di veder profilarsi su dalle onde la Palestina, invece con rabbia si accorse che si era spezzata la catena e la corvetta andava alla deriva. Chiamò gli altri. Il mare si era un po’ calmato. Raggiunsero la corvetta. Egli seppe improvvisare un cavo e decise che doveva essere messa di fianco. Proseguirono ma era come andare con un piede calzato e l’altro scalzo. I due Ebrei, sebbene armati di pistola, erano gentilissimi e gli battevano spesso la mano sulla spalla dicendogli: “Bravo Cristoforo Colombo”. Ed egli pensava che per lui era proprio come uno scoprire l’America, quell’andare verso la Palestina. Quando furono in vista di questa terra, consultata la carta, i due Ebrei indicarono un monte che sorgeva all’orizzonte e dissero di puntare lì, dove era Caifa. Ma egli guardò acutamente e disse che non era il Monte di Caifa, vi era stato altre volte. “Non si vede la strada che porta a Gerusalemme, non è Caifa, io lo so, voi non conoscete neanche la vostra terra”. E si sentiva orgoglioso.

Difatti non era Caifa, ma una zona in mano degli arabi, e dovettero lasciare a lui scegliere la rotta. Arrivarono infine, come naufraghi fuori dalle onde, con la barba lunga, estenuati, sbalorditi. Furono subito messi in un albergo per ristorarsi, e quando andarono al Comando gli dissero che le centocinquantamila lire gliele davano, non per fare i marinai, ma se si fossero arruolati nell’esercito che combatteva. Allora fu peggio che tra Matapan e Creta: di guerre ne aveva fatta, una e gli era bastata. Poteva ritornare se non accettava: gli pagavano il viaggio e ancora gli davano altre trentamila lire.
Ritornò. Ripensava che con gli uomini è sempre peggio che col mare, il mare ha le sue leggi e, dopo qualche anno di navigazione, sono leggi chiare, mentre gli uomini anche dopo tutta una vita non si capiscono mai.
Giovanni Comisso
da Il Tempo del 07/11/1948
Immagine in evidenza: Sunset in Hebron, Palestine (Aseel zm, Wikimedia Commons)