Una delle più belle definizioni di Pinocchio la si deve a Benedetto Croce, che identifica con l’umanità il legno in cui è intagliato il burattino, a sottolinearne il carattere vivo, transepocale, di eterna metafora potenzialmente interminabile. A questa immagine – e all’originario ‘addomesticamento’ di genere, laddove i moduli della fiaba appaiono ripensati per raccontare la società – deve aver guardato Fabio Stassi nella stesura del suo Mastro Geppetto (Sellerio, 2021), commovente estensione dell’opera collodiana. La scelta di porre al centro l’anziano padre, personaggio secondario di un’epopea cupa e sghemba, risponde a una tensione interna alla parabola dell’autore, il cui narrare è attraversato da un’urgenza emotiva, dal bisogno di mostrare la resistenza dei diversi, la loro lotta contro il mondo, il coraggio di rivendicare uno spazio di tenerezza.
C’è, in questa favola rovesciata, un senso di smarrimento e di prodigio, un incanto senza fantasticherie, privo di fate turchine, omini di burro, grilli parlanti e metamorfosi. Difficile uscire indenni dal clima secco di queste pagine, da un turbinio di immagini che paiono rubate al Lorenzini, tramate della stessa ruvidezza, della stessa nostalgia. In assenza di meraviglia – se si esclude l’uomo caudato amico di Geppetto, più simile a un freak che a un personaggio fiabesco – Stassi descrive minutamente le case e le cose del ‘suo’ teatro, «un borgo cattivo sul dorso di un Appennino che ha per gioco preferito quello di lapidare gli scemi, i senza famiglia e i morti di fame».
Volutamente irriconoscibile, dettagliato al solo fine di ragionare sui tipi umani, il villaggio di Mastro Geppetto è un luogo ordinario, attraversato con lentezza, emblema di uno ‘stare al mondo’ che è idealmente quello di tutti (basti pensare ai personaggi, indicati col proprio ruolo e mai per nome). C’è, in quest’universo ricreato da Stassi, un’attrazione per i margini – dell’ordine mentale e di quello sociale – e tutto risulta intrecciato con il rifiuto dell’ingiustizia, con l’idea che il sopruso sia un atto banale, perpetrato con indolenza. In questa prospettiva, l’autore sembra mostrare come le vite reiette siano in realtà le più forti, innervate da una tenacia che procede dalla fragilità, da un candore dell’anima che scuote e commuove. Il suo Geppetto è un derelitto senza corazza, campione di un’umanità diversa che si oppone – soccombendo – al cinismo dei gregari, che non sa mettere radici perché è fuori tempo e fuori posto, vinto dagli eventi, dal corso della storia.
Truffato nel modo più ignobile, là dove vivono i sogni – di paternità e di vita girovaga – riceve in dono «una corteccia dura di catasta», che i compaesani fanno sparire dopo il lavoro di intaglio, costato a Geppetto una «fatica boia», lui che come Giuseppe (non a caso il suo vero nome) è un falegname, un uomo giusto. Si coglie, pagina dopo pagina, il fondo del suo dolore, quel peso della solitudine che sfiora il gelo della morte e fa a pugni con l’arroganza, col cinismo provinciale, con la crudeltà di chi crede sia solo uno scherzo, che nascondere un burattino – un figlio – sia cosa di poco conto. Così Geppetto, un disgraziato a cui si «incespica pure la lingua», annaspa nel tentativo di ritrovare la sua creatura, ed è un inseguimento fatale, senza sosta e senza meta, dove ogni tappa segna una voragine e tutti gli incontri sanno di lacrime e di terra, come quello con il serpente che ascolta la storia del burattino, «la sua storia sbilenca dal principio», condita di «cose piccole e buffe», dolcemente strazianti.
È un libro sul dolore Mastro Geppetto, su un’assenza che dà colore a un destino opaco. Ma è anche un inno alla purezza, alla generosità, alla capacità di opporsi al filisteismo della norma, all’assuefazione all’abuso. Fabio Stassi ha introiettato la lezione dell’espressionismo, e ancor di più di quel Novecento in cui il diverso – lo strambo – diviene filtro espressivo delle sofferenze dei personaggi operandone insieme il riscatto etico. In questa prospettiva, il vecchio falegname «dalla barba dura, e le spalle curve, e l’aria selvatica», che ha sulla testa «una parrucca colore della polenta di granturco» riesce, con la sua stravaganza, a smascherare il disfacimento della società odierna, non così dissimile da quella effigiata da Collodi, in cui il rispetto della persona umana è sottomesso alla convenienza, al menefreghismo dei mediocri. Una figura christi, la sua, che nell’ennesimo ribaltamento d’autore diviene padre e madre insieme, consegnando ai lettori uno dei passi più intensi della narrativa di questi ultimi anni: «Seduto lì per terra, imbrattato di fango, con quel simulacro di figlio tra le mani, pareva una di quelle pietà medievali che si incontrano negli oratori delle chiese di montagna, ma era come se l’anonimo autore della scultura si fosse confuso e a deporre il corpo martoriato di Gesù dalla croce avesse raffigurato per errore suo padre in persona, ormai vecchissimo, e non più Maria, la madre legittima, come si è sempre raccontato. Del resto il suo era un paese senza madonne, e senza resurrezione».
Fa tutto questo Stassi, con penna leggera e sicura, senza compiere sforzi, con una lingua che vibra e carezza. E lo fa per riscattare una vita intrappolata nei discorsi altrui, negli occhi ciechi della società, mentre attorno domina l’afasia e nessuno – nemmeno oggi – si rende conto di cosa significhi la parola, di quanta importanza essa abbia.
Ginevra Amadio
L’intervista
[Ginevra Amadio]: Tornare al classico per saggiarne il dinamismo, il carattere vivo, le infinite variazioni sul tema. Pinocchio, secondo una definizione di Alberto Savinio, è la «Bibbia del cuore»; un concentrato di sentimenti, di vuoti parlanti, un’immensa allegoria potenzialmente interminabile. La prima curiosità non può che partire da qui: perché ha scelto Geppetto? Qual è la forza del suo punto di vista?
[Fabio Stassi]: Sono affezionatissimo a questa figura di padre. Pinocchio è un personaggio affascinante ma ricco di ambiguità; io invece ho sempre trepidato per Geppetto, con la sua anima pura, dolente, fuori dal tempo. C’è un passaggio, nel libro di Collodi, in cui egli sale su una barca per andare a cercare il figlio, la spinge in mare con fatica e con estrema forza d’animo. È una scena dolcissima, dove si avverte la delicatezza del suo cuore, la fatica di un viaggio che è ricerca d’affetto, un atto d’amore. Ora che ci penso, anche mio zio – il mio Geppetto, del quale parlo nel Congedo finale – aveva una barchetta di legno, ed è stato lui a portarmi in mare per la prima volta. Ecco, mi piace pensare che il legame con questo personaggio si situi nell’infanzia, che sia nato in maniera inconsapevole, istintiva. Tuttavia, ci tengo a dirlo, questa non è letteratura derivata. Tutto ciò che leggiamo è già stato scritto, la letteratura è sempre di seconda mano. La stessa storia di Geppetto ricalca da un lato quella di Gesù, dall’altro rovescia il percorso di Telemaco. Con questo libro, piuttosto, io ho voluto strappare il fondale del teatro, far vedere come Pinocchio contenga tanta realtà, tanti elementi che continuano a parlarci. In tal senso, ho simbolicamente posto della dinamite sotto il concetto di metaletteratura, sotto i dettami del postmoderno. È un aspetto a cui tengo moltissimo e attorno al quale ho costruito gran parte dei miei romanzi: mostrare il rapporto tra finzione e realtà o, meglio ancora, tra la vita e la letteratura. Per riuscirci, in quest’ultima occasione, avevo bisogno di prendere un’opera-mondo, entrata nell’immaginario collettivo e univocamente riconosciuta come testo cardine. Solo così ho potuto mostrare la realtà al quadrato, o almeno sondarne le contraddizioni, fotografarne gli eccessi, le storture. Pinocchio è un libro misterioso, scritto da un autore che soffriva di solitudine, che non ha avuto figli, che non si è appiattito sul concetto di “normalità”. È una storia di emarginazione, il racconto di un naufragio. Anche in questo senso mi è parso il testo più adatto per raccontare i nostri tempi, la catastrofe che stiamo vivendo. La pandemia, uno degli eventi più tragici degli ultimi decenni, ha causato non solo morte ma una perdita di empatia, di tenerezza. A questo si è aggiunta la guerra, la crisi climatica, la scomparsa – che io trovo gravissima – della poesia, intesa come capacità di capire il mondo, di porsi sulle stesse frequenze di chi abbiamo vicino. Mi sono chiesto: come posso raccontare tutto ciò senza essere banale? L’idea alla base di Mastro Geppetto mi è parsa la più adatta, quella capace di riassumere tutto: i libri che avevo letto, le emozioni che avevo provato, le riflessioni sul tempo e sulla Storia.
Quello di Geppetto è un vagabondare sghembo, alla ricerca di un’illusione, di qualcosa che non c’è ma fa battere il cuore, che dà un senso alla vita. Ecco, se dovessi immaginare un sottotitolo per il romanzo parlerei di un viaggio verso l’ignoto – che è sempre lo spazio della scoperta, della paura, ma anche un luogo di speranza, di un conforto agognato. È così?
Sì, assolutamente. Per me è anche un libro sulla sopravvivenza e Mastro Geppetto ne è l’emblema, lui che riesce a tenere accesa una candela nel pescecane. Pinocchio è un grande romanzo sui naufragi – sociali, comunitari, personali – ma al tempo stesso è un manuale di sopravvivenza. Dentro la pancia del pescecane Geppetto resiste assemblando relitti, ricavando un tavolaccio, accendendo, appunto, una candela. Questa per me è un simbolo di speranza, una luce fioca che illumina il buio, che resiste alle intemperie. Quello che ci rimane oggi, in un tempo in cui ogni cosa è frammentata, la vecchiaia è percepita come un peso, la morte è solitaria. Del Covid-19 si parla sempre meno ed è un rimosso terrificante. Una malattia che colpisce i polmoni, che toglie il respiro, cancella la parola. Questa è una grande minaccia: la perdita della parola. Geppetto la vive in prima persona, ma continua a battersi per modificare il proprio destino, non assorbe la negatività, la miseria di chi vorrebbe farlo a pezzi. È un uomo pieno di illusioni, e il mio è anche un libro sulla perdita di quest’ultime. Un dato devastante, che rende quest’opera una pezzo della mia vita, del mio cuore. È un romanzo spartiacque, in cui faccio i conti con tantissime cose. Io ho creduto a lungo nelle potenzialità della finzione, nel fantastico, ma ne ho sempre voluto cogliere gli aspetti reali, di contatto con il quotidiano. Così ho riletto la storia di Geppetto, con un Pinocchio assente e senza alcun prodigio. Benedetto Croce diceva che quello di Collodi è un libro umano che cerca le vie del cuore. Ecco, io ho voluto pormi in questo solco, percorrendo le strade di Geppetto, dell’umanità che siamo diventati. Così, tra le pieghe del testo, si parla della frattura tra genitori e figli, dell’incomunicabilità generazionale, di un’adolescenza senza fine. Volevo raccontare cosa significa essere genitore, cosa vuol dire essere figlio, talora per sempre – come oggi. Non avrei potuto farlo scrivendo una storia diversa, mai esistita.
Come l’opera di Collodi, anche Mastro Geppetto ci lascia dialoghi indimenticabili. Sono pochi, misurati, ma di forte impatto visivo, anzi teatrale. Eppure la parola è un grande inganno. Tutti mentono, nel romanzo, cercano di truffare il prossimo, di avere un proprio tornaconto. Non è un caso che Geppetto sia l’unico a porre domande, quasi cercasse – in maniera goffa e commovente – di interagire con un mondo che non parla la sua stessa lingua…
È così. Tutti hanno delle certezze nel romanzo. I prepotenti non esitano, appaiono fermi nelle loro decisioni, nelle proprie azioni. Geppetto si colloca sull’altro versante, quello del dubbio, della perplessità. È un povero di spirito, un Candide. Non è brillante, non mostra alcun guizzo, ma ha in sé il rifiuto della prevaricazione che lo porta a opporsi a ogni forma di sopruso. C’è qualcosa di rivoluzionario in questo, nel rispetto di Geppetto dinnanzi alla cattiveria del mondo. Un altro tema inoltre mi pare essenziale, ed è derivato sia da Collodi che da Sciascia: quello della giustizia ingiusta. È un motivo molto italiano, che io ho declinato sul piano individuale per mostrare il dolore dei deboli, il loro destino di infamia. Come uomo, Geppetto rappresenta una classe sociale disagiata, derelitta. È un discorso politico, di lotta di classe quasi, ma io credo che la letteratura intersechi sempre questi piani. È intollerabile l’ingiustizia che lui subisce, così come insopportabile è la vigliaccheria di chi è rapace con i miti e mite con i rapaci. Il tempo stesso che viviamo risulta vigliacco, prevaricatore. È facile prendersela con i deboli, con coloro che non ce la fanno, che non risultano performanti, in linea con le esigenze della società.
Perdita e assenza sono i due grandi fuochi del testo. Perdita di solidarietà, di comprensione, in una sorta di anestesia etico-sentimentale che avvolge l’intera società. Poi c’è la mancanza, che in termini di rapporti umani si manifesta nell’incapacità di accogliere il diverso, di comprendere le ‘stranezze’ di un «vecchio pazzo». Qui è forse più interessante parlare di analfabetismo, perché i personaggi di Mastro Geppetto sembrano ineducati all’amore. Quanto c’è di attuale in questo? Mastro Antonio, l’impiegato dell’anagrafe, il maestro, sono tutte figure dei nostri tempi.
Geppetto, lui sì analfabeta, è in realtà il custode della parola. Lui che è un artigiano e un artista, che disegna il fuoco quando sente freddo o intaglia le orecchie al burattino affinché non sia più sordo. Questo è uno dei suoi atti più commoventi: donare l’ascolto dopo aver scelto con cura le parole. In questo senso, Geppetto vuole che suo figlio non sia anestetizzato, non sia insensibile all’amore. Lui stesso soffre, lotta, si lacera. Ecco perché il loro rapporto, benché unilaterale, è davvero una storia di affetto, di sentimenti profondi. Gli altri personaggi, con la loro banalità del male, sono figure dei nostri tempi, burocrati in grado di gestire una violenza potentissima. Chiusi nella loro cecità, nella ripetizione meccanica di compiti o azioni, non hanno interesse per nulla. Non si interrogano, eseguono. Sono conformi all’ordine. Da gregari, hanno paura di contrapporsi al più forte, di sfidare l’opinione dominante. È un altro tratto tipico della nostra società, sempre più arida e polarizzata. Ma anche Geppetto è molto contemporaneo; padre e madre insieme, interpreta un sentimento genitoriale che travalica il genere. Poi c’è la questione della disparità, la marginalizzazione del povero. E l’ambiente, che ho cercato di porre al centro dell’opera per riflettere sul rapporto uomo-natura, per trarre dallo stupore di Geppetto un sentimento di rispetto e riscoperta.
Il romanzo è un flusso di evocazioni, di immagini improntate a un’esattezza nominativa che richiama l’atmosfera del capolavoro collodiano e al tempo stesso ne rende l’attualità, il suo essere ‘radiografia’ di un’umanità variegata e/o dolente. C’è un’immagine in particolare nella tua memoria che ti ricollega a quanto narrato?
L’immagine che mi porto dentro è legata a mio zio, al quale volevo un bene profondo. Nel finale del libro, parlando di lui, strappo ancora una volta il velo della finzione per toccare la realtà, quella più intima e personale. Quando si è ammalato lo hanno ricoverato in un istituto dove periodicamente andavo a trovarlo. Si sa che uno degli aspetti più dolorosi dell’Alzheimer è la perdita della memoria, della facoltà del linguaggio. Così, quando un giorno lui mi ha chiamato per nome, è stata una gioia imprevista, indescrivibile. E poi quella residenza sembrava davvero la pancia del pescecane, come la clinica in cui si spegne Geppetto. C’era un maestro di musica che parlava solo solfeggiando, che faceva discorsi inintellegibili che però sottintendevano mondi. Ecco, quell’umanità che ho collocato nella Real Casa dei Matti io l’ho vista, tutto ciò che anima questo libro è reale, intercetta la vita.
Fabio Stassi – Mastro Geppetto
Editore : Sellerio Editore Palermo (14 ottobre 2021)
Il contesto n. 125
220 pagine
Formato: Copertina flessibile / eBook
Immagine in evidenza: Illustrazione da “Le avventure di Pinocchio, storia di un burattino”, Carlo Collodi, Bemporad & figlio, Firenze 1902 (Drawings and engravings by Carlo Chiostri, and A. Bongini) – Wikimedia Commons